L’ossessione sessista del Grande Fratello

  

Oltre sei milioni di spettatori hanno seguito ieri sera la prima puntata del Grande Fratello 10, il più popolare e il più vecchio tra i reality italiani, che gode del format TV più semplice, basato su un gruppo di persone costrette alla convivenza forzata in una casa.

Quello che salta all’occhio, a 10 anni dalla prima messa in onda, è come questa struttura, potenzialmente libera di dedicarsi allo sviluppo e all’osservazione delle molteplici sfumature delle dinamiche della relazione umana si sia trasformata nella più grande manifestazione voyeristica del sessismo italico, centrato sull’esaltazione dei due grandi poli stereotipati del maschile e femminile.

Quella andata in onda ieri sera è un’impetuosa e volgare messa in scena della rigida divisione tra il maschio cacciatore e la femmina preda. Si parte subito con il primo concorrente, tal Tullio che si autodefinisce “amico di tutte le donne”, macchietta bullata e derisa e immediatamente messo alla prova sulla sua mascolinità: in un minuto avrebbe dovuto mettere la lingua in bocca alla seconda concorrente, sotto l’occhio attento della conduttrice e sotto il (pre-)giudizio del branco di tre ex-concorrenti che lo sbeffeggiavano grettamente per il fatto di non dare dimostrazione della sua mascolina superiorità.

Poco tempo più tardi la scena si ripete: sarà un altro concorrente, Mauro, chiuso da solo in un albergo, a ricevere le avance di un’altra ex-concorrente, tettuta e provocante, che lo deride per la sua incapacità di farne una preda sessuale, visto e stra-visto concentrato del velinismo da donna-oggetto.

La puntata procede in un continuo rimarcare la differenza tra i “maschi” e le “femmine”; la prima esclusione dalla casa si concentra solo su questa unica bipolarità che riduce le persone a una sola dimensione possible.

Anche il momento di commozione è centrato sul giovanissimo Marco che non può piangere – come gli ricorda la Marcuzzi – perché suo padre così gli ha chiesto.

L’affascinante messa in scena delle dinamiche di gruppo viene umiliata all’unico interrogativo possible: come si accoppieranno nella casa i maschietti affamati con le donzelle timorose?

In questo misero contesto, si inserisce la rappresentazione dell’universo lgbt. Appare – con il plauso del gay Alfonso Signorini – “il primo gay dichiarato della storia del GF”, tal Maicol da Ferrara. Compare, bullato anch’egli come opposto del macho italico, in una prova di tiro alla fune con il muscoloso Massimo. Mette in mostra tutte le caratteristiche esasperate del freak-macchietta, icona di un’identità che è terzo sesso, dove l’orientamento sessuale altro – mai nominato – non è un’altra variabile che arricchisce, ma è la negazione della dicotomia maschio-femmina, è un rosa che lo pone fuori dai giochi di una sessualità abbondante e mostrata. Non è un caso che viene subito presentato come “vergine”, asessuato eunuco che passa subito nella camera delle ragazze a parlare di trucchi, mentre i veri maschi nella loro stanza iniziano il processo di esclusione.

Ma il vero caso di questa edizione è un altro. È il concorrente transessuale FtM che prenderà forma solo nella seconda puntata. La conduttrice infatti annuncia che un concorrente, forse già entrato o forse no, era una bambina e adesso è un maschio. Il voyerismo italiano contagia così ogni spettatore: l’Italia per una settimana andrà morbosamente a spiare i genitali dei concorrenti per scoprire la differenza. La dignità della persona è cancellata, la persona è momentaneamente invisibile: la transessualità – mai chiaramente chiamata con il suo nome – diventa gossip che fa paura, espressa dalla triviale affermazione di un’ex-vincitrice del reality, che non dice quali ragazzi le piacciono, perché metti caso che scegliesse proprio quello!

Un’Italia banale, che riduce la varietà umana ad un gioco di incastri eterosessista, quella che appare dall’umanità in mostra del popolare reality, dove tutto è bianco o nero. Varrebbe la pena spegnere la TV e correre al cinema a vedere le famiglie arcobaleno del film della Pixar Up, in questi giorni nelle sale.

Ma purtroppo i sei milioni di telespettatori resteranno sempre lì, davanti ad una televisione che da decenni sta costruendo dal basso la cultura del pregiudizio e della carenza di libertà.

Matteo Ricci
Ufficio Stampa Arcigay
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