In memoria di Matteo

  

IL CORRIERE DELLA SERA

I funerali del ragazzo suicida a Torino. Undici sacerdoti celebrano la messa
Matteo, l´addio dei compagni «Chi ti ha ferito la pagherà»
I bigliettini lasciati in chiesa. L´Arcigay: silenzi da destra e sinistra

BUTTIGLIERA D´ASTI (Asti) — A sedici anni anche il dolore obbedisce a regole non scritte: tutte le compagne e le amiche di Matteo da una parte, i pochi compagni dall´altra. Le prime quasi soffocate dai singhiozzi, i secondi stretti nelle spalle quasi a volersi proteggere dagli sguardi indagatori. Tutti però con una promessa affidata a coriandoli di carta lasciati sul sagrato della piccola chiesa di Buttigliera d´Asti. Parole diverse per dire una sola cosa: «Te lo prometto, faremo sentire peggio che dei vermi tutti quelli che ti hanno fatto stare male», «chi ti ha ferito non la farà franca», «non ti abbiamo capito ma saremo più cattivi di loro nel fargliela pagare». Perché, come dice un ragazzo dalla faccia pulita: «E´ vero che quelli più grandi chiamavano Matteo Jonathan. Anch´io una volta sono stato tra loro. Ma era uno scherzo, non credevo…».

I ragazzi ne sono convinti. E, da soli, lo gridano benché sottovoce, lo scrivono sulle email spedite alla preside: se Matteo è morto è per colpa degli scherzi che ha dovuto subire a scuola. Ieri c´era tutta la sua classe, la seconda B dell´istituto «in» dei ragionieri di Torino, per l´ultimo saluto. I suoi compagni accompagnati in pullman dai professori, ma anche quelli delle medie e delle elementari. Gli amici degli amici.

La mamma e il papà seduti lontano, i fratelli e i cugini, la comunità filippina. Don Ciotti e altri dieci sacerdoti sull´altare (tra cui due zii di Matteo). «Se Matteo ha compiuto questo gesto — ha detto don Giovanni durante l´omelia — è per disperazione. Noi ci asteniamo però dal giudicare, perché è sempre facile addossare la colpa agli altri». Nessun riferimento alla «diversità» di Matteo, se non in un cartellone azzurro scritto con il pennarello dai suoi amici: «La tua storia la sappiamo, meritava più ascolto. E magari, chissà, se noi avessimo saputo darti una mano». E ancora: «Te ne vai girando per l´universo per raggiungere forse adesso la tua metà, quel "mondo diverso" che non trovavi mai». «Diverso nel senso che era unico», s´affretta a spiegare in modo scomposto un´insegnante. «Scrivetelo, per favore, perché l´immagine che viene fuori dai media di Matteo non corrisponde al vero: era il primo della classe, disponibile ad aiutare i suoi compagni e non c´è alcun elemento per dire che fosse gay». Una cosa è certa: «Qualcosa è successo», e sotto la spinta di tutti quei messaggi adesso anche la preside Catterina Cogno lo ammette.

A fare rumore, nella giornata dell´addio, sono anche i silenzi. «Di destra e sinistra» contro i quali punta il dito il segretario di Arcigay Aurelio Mancuso: «A Torino un ragazzo muore suicida perché non riusciva più a sopportare gli insulti omofobici dei compagni; a Milano la storica libreria Babele viene imbrattata di scritte neonaziste contro i gay. Ebbene Sergio Chiamparino e Letizia Moratti scelgono il silenzio: evidente segnale politico». Parla invece il presidente dell´Udc Buttiglione: «Noi siamo visceralmente contrari a qualunque forma di violenza contro gli omosessuali, come in generale al bullismo e a ogni forma di persecuzione». A proposito della mobilitazione del 17 maggio contro il Family Day aggiunge: «Dobbiamo però reagire con sdegno al tentativo di mettere sullo stesso piano questi gesti di omofobia con la ragionata opposizione ai Dico e al matrimonio degli omosessuali».


LA STAMPA
di STEFANIA MIRETTI

“Perdonaci per le parole non dette”

Il ragazzo morto sta al centro, chiuso per sempre nella cassa di larice coperta di gigli bianchi; i ragazzi feriti sono tutt’intorno, s’abbracciano, si stringono, s’avvinghiano. E’ un groviglio, un ammasso indistinto di capelli, mani, guance rigate, menti lucidi, giubbotti scuri. E’ la classe seconda B dell’istituto tecnico commerciale «Sommeiller» di Torino, più femmine che maschi, scarpe da ginnastica, felpe che odorano di ammorbidente. Pare una nidiata di cuccioli e paiono proprio guaiti quelli che a tratti si levano da quel gruppo in movimento e raggiungono anche le panche più lontane quando l’organo, improvvisamente, tace.

Sono stati i sacerdoti a volere che i ragazzi feriti stessero lì, stretti nel poco spazio tra i banchi e l’altare, vicini e insieme al ragazzo morto. Lui, riferisce un’amica di famiglia che ha raccolto le confidenze della madre, da qualche tempo «non sapeva più chi doveva essere». Neppure loro lo sanno, proprio oggi che tocca affrontare gli sguardi degli altri, i giudizi già emessi e persino la cortese freddezza della madre di Matteo quando, sforzandosi, rassicurati dalle professoresse, andranno tutti insieme a salutarla.

Eccola, la classe di un ragazzo che s’è gettato nel vuoto perché – forse – si sentiva escluso dai compagni. Quattro maschi e tante ragazzine, trasportati in questa piazza di paese dal pullman rosso partito da scuola, come fosse per una gita scolastica. Sono scesi espirando aria, tenendosi per mano; siccome era presto, e c’era già tanta gente, i professori li hanno sospinti via, «forza ragazzi, andiamo a fare due passi»; hanno camminato veloci e al ritorno si sono come aggrappati al cartellone azzurro preparato per dire addio al loro compagno. Sopra ci hanno appiccicato tante fotografie dove il ragazzo col nome da italiano e la faccia da filippino sta tra i coetanei e ride, e siccome Matteo aveva denti bianchissimi sembra che rida ancora di più; e a serpentina tra le foto, col pennarello, hanno scritto un lungo saluto che pare il testo di una canzone: «E’ per te questo viaggio nel vento»; «Passerà il tempo e avrai quindici anni per sempre».

Invece Alessia, Giulia, Valentina, Martina e gli altri cresceranno. Crescerà il cugino di Matteo, un ragazzetto esile che sopporta il peso di cose troppo pesanti da dire: «Perdonaci per ciò che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, per le parole non dette». E cresceranno le amiche delle medie venute a salutare il compagno preferito, quello a cui facevano un po’ da mammine, quello più gentile, quello di cui vogliono ricordare tutto, persino «la prima volta che ti abbiamo messo il gel nei capelli». Cresceranno i due fratelli di Matteo, che per ora sono solo ometti e perciò non piangono mai.
Don Bruno Vanoni, la cui breve omelia è quasi un rantolo, lo dice chiaro, ben scandito, che tutti in chiesa possano sentire: «Non giudicate una classe! I giovani sono al centro della nostra tenerezza, sono i nostri figli». E rivolto alla bara: «Matteo, abbraccia questi ragazzi capaci di avanzare. Tu oggi non sei morto».

Anche la II B, certo, abbraccia Matteo. «Chissà, se avessimo potuto darti una mano», c’è scritto a grandi caratteri sul cartellone azzurro, «ma che importa, ora che puoi prendere per la coda una cometa e, girando per l’universo, te ne vai per raggiungere, forse adesso, quel mondo diverso che non trovavi mai», hanno scelto di scrivere. Parole di ragazzi. E parole di adulti. Dice don Giovanni, lo zio di Matteo, aprendo la funzione: «Noi ci asteniamo dal giudicare, perché è sempre facile addossare la colpa agli altri»; e poi, ma dolcemente: «Non mollate. Non cedete alle sirene dell’arrivismo e della facile popolarità». Dice la preside della scuola accusata di non aver saputo vedere, comprendere, prevenire: «Matteo, eri e sei l’orgoglio dell’istituto Sommeiller»; e ai giornalisti, fuori dalla chiesa: «Aiutateci a ristabilire la verità».

Matteo, invece, se ne va col suo mistero, un vestito grigio da uomo e le mani piene di bigliettini, perché non può esserci alcuna verità che possa dare senso al salto nel vuoto di un adolescente. Ci sono solo tutti questi ragazzi che camminano in silenzio dietro un carro funebre, c’è una zia che continua a girare il video da spedire ai parenti che vivono in Asia (ha ripreso tutto, il piccolo viso sfigurato da un’ematoma che non s’è riusciti a nascondere, i trapani elettrici che avvitano i bulloni, i singhiozzi della madre avvinghiata alla bara), ci sono due genitori che non si scambiano un solo sguardo e due fratelli che si sforzano, ci sono due zii sacerdoti e c’è il cuscino di fiori del Gay Pride, c’è tutto questo e nessuna verità al funerale di Matteo, il quindicenne che non sapeva più chi doveva essere e non avrà il tempo necessario per scoprire che non si può diventare altro da quel che si è.

LA STAMPA di MARIA TERESA MARTINENGO

L’addio a Matteo: “Ora chi sa parli”

L’addio a Matteo, lo studente del Sommeiller che si è gettato dal quarto piano anche perché deriso per la sua bravura a scuola e i suoi modi gentili – considerati «da gay» – è stato una lunga mattina di sofferenza, di lacrime, di ipotesi, di difese e autodifese.

Gli ispettori
Davanti alla bara di legno chiaro, quasi da bambino, ornata di fiori bianchi, sono sfilate le difficoltà della famiglia multietnica, la scuola che arriva fin dove può, l’amicizia dei coetanei che non basta. La professoressa Donatella Magliano, arrivando alla chiesa di San Martino, nella piazza del paese, racconta: «Ho detto ai ragazzi di dire tutta la verità, martedì, all’ispettore del ministero. Anche se hanno sentito altri deridere Matteo». Per giustizia, per non vivere col senso di colpa. Per affetto verso un compagno che la prof definisce «un fiore bello e fragile».
Di tante ragioni, forse, è morto Matteo. E suo zio, il canonico Giovanni Maritano, lo ha detto nel funerale senza messa, perché nessuna messa è celebrata nel Sabato santo. Accanto al parroco don Bruno Vanoni e a don Luigi Ciotti, lo zio prete ha ricordato che «Matteo si è sentito solo, nel buio. Al suo gesto non c’è spiegazione plausibile, è un dramma che si è consumato nell’intimo del cuore…». Davanti, con gli occhi gonfi, i genitori Ferruccio Maritano e Priscilla Moreno con gli altri figli, Marco e Mauro.

La corona del Gay Pride
Le telecamere sono rimaste fuori. L’unica in funzione è di una parente. Lo aveva già fatto nella camera mortuaria del Cto: zoomate sul povero volto di Matteo, «perché sappiano anche nelle Filippine». Tra le immagini, la corona del Torino Pride, inviata a nome del movimento che si batte per i diritti delle persone omosessuali, compreso quello di non ritenere la parola «gay» un insulto che può arrivare a far morire, indipendentemente dal vivere davvero la condizione dell’omosessualità.
«La domenica delle Palme eri qui con noi, Matteo, con gli occhi quasi spenti…», dice il parroco nella chiesa affollata dai compagni della II B, da genitori, insegnanti, da ex compagni della media. Ci sono il vice direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Paolo Iennaco, e il direttore dell’Ufficio provinciale, Antonio Catania, a rappresentare il ministro Fioroni. C’è la preside Caterina Cogno, l’assessore regionale all’Istruzione Gianna Pentenero, i parenti piemontesi e gli amici filippini, connazionali di mamma Priscilla.
«Non abdichiamo al ruolo di educatori, siamo chiamati – riprende don Maritano – a trasmettere valori veri: rispetto, impegno, giustizia e, per noi cristiani, quello di una vita spesa bene, al servizio degli altri». Poi, rivolto agli adolescenti, ai compagni del nipote: «Gli ideali alti si raggiungono col sacrificio, non fatevi lusingare dalle sirene del successo facile». E’ di Matteo che parla, della sua sofferenza. «Fate in modo che un compagno che si distingue non sia bersaglio. Fate in modo che la morte di Matteo non sia stata vana, ma diventi stimolo a rivedere i vostri valori».

«Bisogna parlare»
Il microfono passa ai ragazzi. «Eri educato, solare, un grande amico», dice in un soffio una compagna delle medie. L’ultima a parlare è Minda Tenes, fondatrice dell’Associazione filippini in Piemonte: mette l’accento sull’aspro conflitto alla base della separazione dei genitori. Poi il feretro viene portato fuori e il corteo si avvia sotto il sole, verso il cimitero. Papà e mamma restano lontani. La gente va da lei e poi da lui. Il padre ha accanto il figlio ancora bambino. Davanti agli operai che chiudono la tomba, gli sussurra: «Quando capita qualcosa bisogna parlare, non tenersi tutto dentro».


 

LA REPUBBLICA
di MEO PONTE

Matteo, addio con polemica
Una compagna: "Tratteremo come vermi i tuoi aguzzini"
La mamma si accascia: "Bimbo mio quanto hai sofferto"
La preside Cogno: "È stato l´orgoglio del Sommeiller"
Ma gli studenti confermano che era bersaglio di scherzi
E altri prof: "Guardate che mondo diverso non significa fosse gay"
E la fondatrice della comunità filippina accusa il padre: "Colpa sua se la moglie è dovuta fuggire con i figli". Lui replica indignato: "Non è vero niente, è che lei preferiva la città alla campagna"
"Anch´io l´ho chiamato Jonathan: non pensavo di fargli tanto male"

I primi ad arrivare sono i compagni di classe. La seconda B del Sommeiller approda sulla piazza della parrocchia di San Martino a Buttigliera d´Asti con un grande pullman rosso. Grande come quello delle gite ma che oggi porta i ragazzi all´ultimo saluto al compagno non capito. Scortati dagli insegnanti si radunano sul sagrato. Una di loro srotola il manifesto dove tutti insieme hanno scritto un messaggio a Matteo e appiccicato le foto che ricordano i momenti passati insieme. In quelle istantanee Matteo Martirano ride: pare felice, finalmente libero dall´ombra cupa che martedì scorso lo ha spinto fuori dalla finestra del quarto piano di corso Einaudi 63. Il suo sorriso illumina il foglio verde dove i compagni hanno abbozzato un saluto che vuole forse essere anche un´ultima poesia per l´amico perduto: «E´ per te questo bacione nel vento, te lo manderò lì con almeno altri cento e per te forse non sarà molto. La tua storia, lo sappiamo, meritava più ascolto e magari, chissà, se noi avessimo saputo darti una mano… Ma che importa ormai. ora che puoi prendere per coda una cometa e girando per l´universo te ne vai per raggiungere forse adesso la tua meta, quel mondo diverso che non trovavi mai… Solo che non doveva andare così, solo che tutti ora siamo un po´ più soli qui… mentre guarderemo lassù passeranno gli anni e tu avrai quindici anni per sempre. Ciao Teo. I tuoi cari amici». Più tardi quel foglio verde sarà appeso alla balaustra dell´altare e poi donato alla madre di Matteo. E un´insegnante si preoccuperà di sottolineare con i giornalisti: «Guardate che mondo diverso non significa che era gay». Come se il dramma di Matteo fosse tutto lì.

Mentre la piccola parrocchia si riempie di una folla commossa, in gran parte ragazzi (ci sono anche le compagne delle medie di Matteo) emerge con grande evidenza la contraddizione di questa vicenda: da una parte un corpo insegnante che giura di non aver mai sentito della persecuzione subita da Matteo da parte dei compagni, dall´altra le ingenue rivelazioni dei ragazzi che, appena lontani dalla stretta sorveglianza dei docenti, ammettono che quel ragazzo troppo educato e tanto bravo a scuola da suscitare invidia e rabbia era un bersaglio. Di scherzi e prese in giro. «L´ho chiamato Jonathan anch´io, lo facevano tutti – confessa un ragazzino -. Non pensavo di fargli tanto male. Ma ad accanirsi contro di lui erano soprattutto i più grandi». Altri affidano la loro confessione a bigliettini nascosti tra i fiori. Come Federica, della classe seconda che scrive: «Ti prometto che faremo sentire come vermi quelli che ti hanno fatto star male…». E la stessa preside del Sommeiller, la professoressa Caterina Cogno, ammette che messaggi con lo stesso tono sono arrivati nella posta elettronica. I ragazzi quindi sanno ciò che tutti negano? Lo appurerà martedì l´ispettore scolastico che ha chiesto di incontrare tutti gli studenti che potranno essere rintracciati nonostante le vacanze pasquali. Ora però nella chiesa di Buttigliera d´Asti non è il momento delle inchieste. La piccola parrocchia è colma di una folla commossa. La bara in larice chiaro dove è stato composto Matteo entra in chiesa scortata dai compagni di classe. Dietro la madre Priscilla piange appoggiandosi alle amiche filippine e ai due figli che le sono rimasti: Marco che non ha ancora 17 anni e che per la commozione non riuscirà a leggere il messaggio scritto per il fratello e Mauro, troppo piccolo per capire. Madre e figli siedono nel primo banco, Ferruccio Maritano, il padre, si ferma al quarto, il volto irrigidito in una smorfia di dolore, gli occhi spalancati in un pianto senza lacrime. Marito e moglie, separati da anni, non si rivolgeranno mai una parola, nemmeno uno sguardo per l´intera cerimonia. Lei ha addirittura cambiato religione, è diventata protestante. Forse perché Ferruccio ha due fratelli nelle alte gerarchie della Chiesa: Giovanni che ha un importante incarico nella curia torinese e Mario, salesiano a Roma. Entrambi sono qui con don Luigi Ciotti per benedire la salma del nipote, nei giorni della Passione non è possibile celebrare la messa.

Non si guarderanno Priscilla e Ferruccio, conosciutisi tramite un´agenzia, neanche al cimitero dove Matteo viene tumulato nella tomba di famiglia dei Maritano. Il perché lo urla in chiesa Minda Peves, fondatrice della Comunità filippina di Torino, che ricorda quando lei e le suore di Manila dovettero aiutare Priscilla e i suoi figli in fuga dal marito. Parole che trasformano il dolore di Ferruccio Maritano in rabbia. «Non è vero niente – dice lui indignato – E´ lei che se n´è andata. Preferiva la città alla campagna». Il brusio sollevato dalla parole di Minda Peves però è spazzato via da un alto grido, quella della professoressa Cogno che solleva un applauso quando dice forte: «Matteo è stato l´orgoglio del Sommeiller!». Resta poi il mesto viaggio al cimitero e l´ultima immagine di Priscilla Moreno che si accascia sulla bara di larice chiaro in lacrime, incapace di separarsi da quel figlio perduto. E il suo bisbiglio sofferto: «Bimbo mio, figlio mio quanto hai sofferto».


  •