Il primo ruggito del Queer Lion

  

«Vuoi far parte della giuria del queer lion?». La domanda si è accesa come un flash tra le calli di Venezia. Da lì è cominciata l’avventura offertami dall’Osservatorio Glbt del Comune e dall’associazione Cinemarte che hanno promosso il premio. A dare il ritmo è stata la gioia per il battesimo della targa con i colori del Gay Pride che la Mostra internazionale del cinema ha deciso di dedicare dall’edizione di quest’anno alla cinematografia omosex e trans. Come un vento teso, l’entusiasmo non ci ha lasciato mai: insieme nelle sale a vedere un film dopo l’altro della dozzina di candidati al leoncino gay, mentre addentavamo i panini «George crudey» e «Gregory speck» in vendita nei chioschi a ridosso del Palazzo del Cinema o sorseggiavamo un te freddo, riuniti a due passi dall’Hotel «Des Bains» (la location di Morte a Venezia), per decidere a chi dare il premio.

Il primo film che ho visto è stato «The speed of life» di Ed Radtke, quello a cui abbiamo assegnato il leoncino. La scena finale è un elogio della forza delle immagini e insieme un invito alla speranza. Una telecamera appesa a una messe di palloncini viene lanciata nel cielo da un giovane ladruncolo di New York che, insieme ai suoi compari, ruba le telecamere ai turisti e trattiene il girato, imparando a sbirciare nelle «vite degli altri». Lo sguardo dei teppistelli si affina a riconoscere la verità dalla finzione. Ricostruiscono così una storia di amore tra due uomini «consumata» 30 anni prima, tradita da uno dei due per vergogna. È il cuore di tutto il film, la radice da cui si diparte ogni storia. Quando in sala si accendono le luci, il regista viene presentato dal critico Fabio Ferzetti. Ha i gesti dolci, l’eloquio pacato, una bellezza nostalgica da orientale che vive in America. Dice di essere stato in carcere a sedici anni, come i protagonisti della sua pellicola, rivela che l’amore per il cinema è stata la sua terapia, ed è per questo che oggi fa lezione di regia dietro le sbarre. Fuori piove. Le parole di Ed scendono lente nel cuore, come gocce di pioggia. Gli altri film in concorso sono, passatemi la definizione, «più film e meno vita». Un gioiello di recitazione e di sceneggiatura è «Sleuth» di Branagh con Michael Caine e Jude Law al quale noi giurati abbiamo dato una menzione speciale. Un buon intreccio che accende la tensione psicologica sottende le sequenze di «Nessuna qualità agli eroi» di Paolo Franchi. Il Brad Pitt che non disdegna l’attrazione omoerotica incuriosisce in «The assassination of Jesse James» di Dominik. Ma il film di Ed Radtke che parla delle «vite rubate», e tradite, batte gli altri in permanenza. Ti rinasce dentro, con la sua capacità di commuovere, mentre stai sul vaporetto, guardi un turista con la telecamera al collo, pensi all’amore inquinato dall’omofobia.

Intanto del queer lion parlano soprattutto i giornalisti stranieri. Daniel Casagrande di Cinemarte riceve chiamate dalle emittenti europee e il tam tam corre nei siti web. In sala, nei film dove la tematica è più esplicita, vedi coppie di uomini e capisci che stanno insieme. Le donne innamorate tra loro sono meno visibili, anche se non assenti. I film hanno trascurato l’amore saffico, rappresentando in «24 mesures» di Jalil Lespert con vero gusto dell’orrore due amanti a letto: una delle due ha gli occhi sbarrati (è morta per effetto di una commozione cerebrale), l’altra ha un amplesso con un uomo che entrambe hanno incontrato in discoteca. Le donne lesbiche, chi le ha viste? La giuria si permetterà di mettere un accento sulla vistosa mancanza.

Ang Lee

Ang Lee

Eppure le donne attendevano il queer lion. Un’impiegata della società di trasporti veneziana mi ha chiesto con avidità dei film in concorso e le ho lasciato l’elenco stampato prima di sbarcare al Lido. Sui bus e tra i vaporetti sentivo parlare dell’istituzione del premio con soddisfazione, tutti ricordavano i cow boy innamorati di Ang Lee, il regista che quest’anno ha conquistato il secondo leone.

Arriva il giorno in cui la giuria si riunisce. Vincenzo Patanè dice che la mostra per lui è sempre una festa. Lo è per tutti e si sente. Simone Morandi sorride spesso, Sandro Avanzo ci intrattiene analizzando febbrile le pellicole, Andrea Occhipinti, che presiede la giuria, ascolta attento. Discutiamo e nel frattempo, come accade di rado in questi casi, la simpatia cresce tra di noi. Alla premiazione saremo tutti emozionati. Franca Bimbi, Franco Grillini, Alberta Basaglia, l’Osservatorio Glbt, Cinemarte, noi giurati daremo il premio, che ritira Ferzetti, stringendoci intorno alla targa del leoncino gay, tra tante telecamere e fotocamere digitali. Il premio che l’Iran ha considerato il segno del degrado dell’Occidente, quello stesso Iran che vuole mandare a morte Pegah perché lesbica, è nato. Ed Radke ci scrive: «Siamo davvero eccitati dalla notizia del premio vinto! Vorrei poter volare di nuovo a Venezia per accettarlo personalmente. Voglio poter abbracciare il mio leone colorato d’arcobaleno assieme a voi tutti! E poi ballare e bere tutta la notte!». È buio fitto quando faccio ritorno al mio alloggio. Ai piedi di un ponte, una giovane donna di colore mi ferma chiedendomi: «A chi avete assegnato il queer lion?». I suoi denti bianchi brillano nell’oscurità. Sorride. Ed è l’ultimo flash.


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