Formazione contro l’omofobia interiorizzata

  

Pubblichiamo l’invito al seminario di formazione organizzato da AGEDO e promosso lunedì 20 ottobre 2008 dal CESVOP su “identità omosessuale, omofobia e violenza normalizzata: strumenti teorici e interventi integrati in ambito educativo e sociale", che si terrà in via dello Spezio 43 Palermo, presso il salone della Chiesa Valdese, alle spalle del Teatro Politeama.

La Vostra presenza è gradita e forse in un contesto di xenofobia e omofobia dilaganti forse significa anche dare un segno politico e culturale di rilievo. Si tratta di una formazione gratuita. Mi imbarazza parlarne in prima persona, visto che sono tra i relatori. E’ chiaro che la qualità dell’evento è comprovata dallo spessore dei miei colleghi e amici che tratteranno i diversi e importanti temi. Sono assai recenti e diffusi casi di intolleranza : dai due ragazzi picchiati a Roma perchè stavano mano nella mano, alle persone trans, agli immigrati…Tutte legate da un filo rosso: la negazione di diritti. Non credo che questa sia l’Italia che vogliamo. Il silenzio politico e culturale, il silenzio e l’occultamento delle differenze nei servizi, nelle strutture educative e formative, persino nelle Università.

La violenza nascosta, quotidiana e per questo sfibrante contro le persone gay, lesbiche, bisessuali e transgender (GLBT), è divenuta orribilmente visibile, ha fatto e continua a fare “coming-out”. Forse lo studioso, ma non soltanto lui, dovrebbe interrogarsi proprio sulle condizioni culturali che rendono la violenza strumento legittimo, pratica sociale forma di oppressione non tanto per la specificità degli atti violenti in sé, quanto piuttosto per il contesto sociale che li rende possibili, che li accetta e li giustifica. L’atto del padre che ha accoltellato il figlio omosessuale “per onore e vergogna” è motivo di indignazione ma pare non sorprendere i più:  la violenza nei confronti delle persone GLBT è sistemica e, occultamente, sistematica. Si trascura spesso che essa diventi, anche a causa di stereotipie diffuse dai mass media, “possibilità” e mezzo “legittimo” all’interno dell’immaginario collettivo: in situazioni che, più di altre, “attirano” comportamenti violenti o in cui l’atto violento è tollerato, non si finisce che col rimanere desensibilizzati ed assuefatti. Il proliferare dell’uso di termini offensivi di derivazione omofobica e transfobica e l’idea di perseguitare o schernire il compagno gay o trans* si presenta a molti studenti “normali” nelle classi scolastiche come una possibilità giustificata. In questo caso alcuni comportamenti (o atti)  vengono etichettati come “bravata”, occultando così che l’odio e la paura per certi gruppi non sono ad altro riconducibili se non alla paura di perdere l’identità. È infatti preoccupante solo ipotizzare che vi sia un filo rosso tra i roghi dei campi nomadi nel napoletano, le trans braccate come selvaggina al Prenestino, e il caso di Palermo (e tutti quei casi che restano taciuti e occultati). Ma credo che una relazione esista. Forse bisognerebbe seriamente porsi questi interrogativi e definire strumenti in grado di comprendere la nuova temperie culturale che rende queste azioni manifeste. Situazioni come quella palermitana non fanno altro che richiamare l’attenzione su fattispecie ignorate dal nostro ordinamento e quanto mai necessarie, mi riferisco all’urgenza di norme che individuino e puniscano i crimini d’odio e la loro istigazione, ovvero tutti quegli atti e comportamenti violenti determinati da pregiudizi e stereotipi che generano discriminazioni di genere, appartenenza etnica e orientamento sessuale. Il crimine d’odio commesso nei confronti di una persona omosessuale in quanto omosessuale è motivo di danno secondario per l’intera comunità manifesta (e latente) di persone GLBT, perché non solo ha un impatto diretto e specifico ma costituisce un attacco simbolico nei confronti del gruppo discriminato cui appartiene la vittima. Nel primo caso, quello della comunità “dichiarata”, “manifesta”, azioni del genere possono ingenerare infatti disagio psichico, paura, modificandone anche le abitudini e gli stili di vita; nel secondo caso, la comunità latente, “in the closet”, tutti quegli adolescenti GLBT che non riescono ancora a dirsi e a raccontarsi, rischiano di accentuare l’auto-isolamento fino a forme estreme di autolesionismo. Appare allora necessario animare un dibattito pubblico e un programma di ricerca e di intervento assai necessari all’interno della società civile, guardando come la violenza come imperativo culturale sovente investa persino religione e morale, travolte dal desiderio di credere e dal consumo di fede anche a scapito delle libertà individuale, della dignità della persona, delle sue emozioni, del suo corpo. Si tratta in definitiva di forme di esercizio di giustizia civile e sessuale.

Aiutateci a non essere una delle poche voci, tra poche altre, che vuole una realtà inclusiva e plurale.


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