Gli ultimi giorni dell’amore

  

CHE destino ha l’amore in tempi di crisi? Sublime, almeno secondo Bob Dylan, perché è il mantice di una forza disperata, la turbina che fa procedere il delicato e pericoloso viaggio degli uomini.

Il 15 aprile 2009 Dylan ha tenuto ad Assago il primo dei suoi tre concerti italiani, gli altri sono venerdì 17 a Roma e sabato 18 a Firenze, ma non canterà nulla di “Together Through Life”, maestoso album sull’incorruttibilità del cuore e sul songbook americano della nostalgia che uscirà il 24 aprile 2009.

Non c’è mai un solo senso di marcia nelle opere di Dylan, 68 anni, affilato e magro come è stato nella sua giovinezza febbrile, quella che lo ha consegnato alla Storia come uno dei più grandi poeti contemporanei. Anche ora, dopo che polvere e nuvole si sono addensate sulla grande mappa di un’America sbigottita dalla crisi, tradita dai simboli più evidenti del potere economico, Dylan rifiuta qualsiasi urgenza di fare canzone politica, di raccontare l’eclissi del tempo, lo smarrimento di una nazione che non più invincibile, o comunque non può illudersi di esserlo.

Da questo punto in poi, con una magistrale lezione poetica, quest’uomo complesso e sfuggente ridisegna la stessa mappa sporcata dagli intrighi e dall’arroganza. Parla di sentimenti, di «taglio romantico” delle nuove canzoni, dieci in tutto: «È una specie di viaggio» concede in una rara intervista «un viaggio alla scoperta di se stessi, che si svolge nel sud dell’America», intendendo con un’immagine molto evocativa sia la scena del film “My Own Love Song” del regista francese Oliver Dahan, lo stesso di “La vie en rose”, che gli ha chiesto di partecipare alla colonna sonora, sia l’ampiezza di emozioni ed elementi naturali, spesso contrastanti, che esplodono proprio sotto la “cotton belt”, quella cintura del cotone che ha sempre delimitato le due Americhe, rurale e industriale, conservatrice e progressista, signorile e opportunista, e in questo modo anche le sorti del suo popolo, ora fondamentalista, ora sinceramente democratico.

Ma la ricchezza di una nazione non è solo nei suoi pensieri più nobili, sta anche nelle emozioni, nella memoria, nel riconoscere a chi è venuto prima un primato che forse l’esistenza terrena non ha stabilito, e che invece gli epigoni devono scolpire nella pietra. Questo è Bob Dylan, con la selvaggia combustione del blues, l’incrocio dei mariachi con le melodie dell’accordeon, qui affidato a un celebre musicista, David Hidalgo dei Los Lobos, sino al canzoniere melodico appartenuto a Bing Crosby piuttosto che a Dean Martin.

Non serve una formula, non è possibile ripetersi, sembra alludere a un ipotetico ascoltatore: «Non credo nemmeno che il mio pubblico sia particolarmente interessato a quale periodo artistico appartenga una mia canzone». E così, senza un appiglio che non sia il carisma o la profonda conoscenza della musica popolare americana, è difficile prevedere Dylan. Ma si può seguire la vibrazione delle sue parole, il flusso di una musica che abbraccia Howlin’ Wolf o Muddy Waters o i Chess Brothers, ai quali il rocker riconosce un grado d’intensità invidiabile ancora oggi.

Ma poi tutto si scioglie, si surriscalda, Dylan prende l’ascoltatore per curiosità: cosa sta dicendo e per quale motivo? Se l’amore è un confronto pulito e onesto sotto la coperta scura di malefici e ingiustizie, per quale motivo Dylan lo immerge in storie di sangue, di fughe laceranti, per quale motivo c’è tanta incertezza?

«Nelle mie canzoni c’è dolore, sesso, assassinio, famiglia, onore, carità. Tutto insieme, non si può scindere».
Così, da una parte c’è il Dylan che suona tutto l’anno, che presta le sue ballate alla pubblicità, che permette “Blowin’ in the Wind”, la più universale delle sue canzoni di protesta, al sindacato britannico, come se il turbinoso corto circuito del suo nome e del suo immaginario fosse un’inevitabile biblioteca di Babele. Dall’altra, c’è l’uomo intuitivo, il poeta puro, il rocker o il folksinger, le tracce musicali che può battere sono infinite, che non finisce mai di elaborare.

Esattamente come un buon attore non smetterà mai di rifinire una parte, di considerare un certo palcoscenico, in una sera più luminosa di altre, il più cruciale della carriera. Le canzoni, anche quelle nuove di “Together Through Life”, “insieme tutta la vita…”, diventano le torce che rischiarano un cammino particolarmente faticoso.

“La porta è stata chiusa per sempre, ammesso che ci sia mai stata una porta…” canta in “Forgetful Heart”, con quel gusto del mistero e del dubbio seminato nel fiume tumultuoso di versi che mettono in fila 46 album e un numero imprecisato di versioni. E in “Feel A Change Coming On”, subito scambiata per un plauso a Obama e subito sconfessata in tal senso, ammette che “la quarta parte del giorno se n’andata…”, dividendo salomonicamente l’attesa per l’ineluttabile e la serenità per il momento più intimo di una lunga giornata.

«Non credo che un cantante debba recitare» spiega Dylan «perché più lo fa e più si allontana dalla verità». Ed è l’altro grande pilastro della sua poetica: cercare sempre e ovunque la verità, che la Bibbia racchiude nelle sue pagine ma che gli uomini devono cercare soprattutto in se stessi e nelle loro azioni.
Sullo sfondo di ombre che danzano nella memoria, con i profili scolpiti nell’ebano come quelli di John Lee Hooker o Son House, per citare solo due dei bluesmen ai quali è devoto, Dylan rintraccia l’amore in sonetti dove lei è sempre misteriosa, meno dolce ma più preziosa di quanto vorremmo, una creatura luciferina se è vero che il diavolo attende agli incroci spogli e assolati nelle distese del Sud. Ma è solo un miraggio: Dylan è vigile nel captare i “politici che dicono bugie”, il degrado urbano, “una tazza d’acqua che è sufficiente per affogare”, come canta nella conclusiva “It’s All Good”, che rimbomba dei pistoni della collera della brava gente: «La povertà deprime, trovo difficile che la gente sia virtuosa se diventa povera» dice.

Dylan rifiuta di collocare geograficamente le varie tappe del suo viaggio, che poi diventa l’odissea di persone ordinarie, sperdute in territori che si somigliano senza avere lo stesso nome: «Ma è sempre vicino a qualche confine» spiega ancora. Così come l’ascoltatore, o chi va in pellegrinaggio a un suo concerto, sa bene che il giorno dopo sarà più difficile


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