In una stanza d’albergo

  

Il brano che segue è stato scritto come introduzione all’attività di apertura – intitolata "Come una gita scolastica" – del laboratorio residenziale di formazione "Dai Nostri Corpi"
proposto dal Progetto Benessere Cassero dell’Arcigay di Bologna il 25-27 settembre 2009, che ha visto la partecipazione di 24 operatori ed operatrici lgbtq.

Ho sempre odiato le gite scolastiche… o meglio ho sempre cercato di evitare come la peste le gite scolastiche. E si può dire che ci sono riuscito per 4 anni. Ma quell’anno avevo esaurito tutto il repertorio di alibi. L’infezione alimentare fulminante era andata bene in prima, con lo scotto di dover passare nel bagno di casa ore a contare il tempo. In seconda mi ero inventato una crisi di panico per una fantomatica interrogazione di inglese che incombeva sulla mia carriera scolastica. La terza volta mi ero fatto forza con la solidarietà che mi legava alla cara amica Giorgia che aveva la scarlattina e mamma l’aveva bevuta che da solo non sarebbe stato lo stesso. Il quarto anno era arrivata l’occupazione della scuola a spazzare via tutte le gite.

Ma quell’anno, il quinto ed ultimo, avevo davvero esaurito il repertorio. Quell’anno non avevo più coraggio né sfacciataggine per giustificarmi, in famiglia come in classe, ed ero partito. Partito per una tragica settimana bianca. E pensare che a me non piaceva neppure sciare.

Il punto però non erano le bucoliche passeggiate in sentieri innevati, e neppure le discese con lo slittino nella ridicola pista vicino all’hotel. Ma come temevo da anni, il mio terrore più grande sarebbe stata la notte, che mi avrebbe strappato alla mia quasi ventennale affezione per la mia singola cameretta e alla mia solitudine casalinga nutrita solo di grandi letture e felici masturbazioni, per gettarmi, tenero e ingenuo tra le grinfie di altri tre compagni di classe, grevi e rumorosi, ma soprattutto capaci solamente di rivolgere i loro interessi ad un solo pensiero.

Era ancora un età in cui camminavo storto e a gambe molli e vestivo maglioni così larghi da potermi perdere più di quanto lo fossi. Ma già sapevo che quell’esperienza mi avrebbe segnato. E così fu.

Mi ritrovai – senza averlo potuto scegliere – in una camera con il belloccio della scuola e i suoi due fidati compari, il trio più terribile della mia noiosissima classe. Concentrato di volgare semplicioneria e di rovinosa sete di affermazione. Mentre io volevo solo farmi gli affari miei, pensare ai miei romanzi preferiti, raccontare l’ultimo film che avevo visto a Giorgia o al massimo starmene silenzioso e antipatico a rimuginare sulla mia orgogliosa diversità.

E invece per sette interminabili notti mi ritrovai sbalzato in un inferno di forze oscure che mi tiravano da ogni parte e che mi avrebbero fatto definitivamente perdere il mio equilibrio.

Luca, il belloccio di cui sopra, non perdeva occasione di mostrare le sue grazie e di raccontare le sue prodezze, in un delirio di complicità adolescenziale e di bisogno di rimarcare la sua – peraltro indiscutibile – superiorità sessuale, provocando nei fidi compagni un tripudio di sguaiata ammirazione, di pacche sulle spalle e di reazioni esasperate che andavano a mettere in scena tutto l’armamentario di dimostrazioni erotiche per me inconfessabili.

Io mi nascondevo nei pochi maglioni o pigiami, nelle lenzuola e nei finti sonni, turbati dalle immagini rubate di quel corpo così attraente, quanto posseduto da una mente così poco affascinante. Svicolavo ossessionato ogni provocazione, ogni domanda, ogni battuta grossolana, sorridendo come un manichino alle complicità comandate. Temendo che potessero ridere di me anche davanti a me, tanto dietro già sapevo che compativano e sfottevano la mia inettitudine, io che non parlavo di ragazze, io che mi cambiavo dentro il bagno, io che non mi vantavo di avercelo un po’ più lungo di qualcun altro.

Nel frattempo, nei ritagli impercettibili li spiavo, sotto i loro brutti slip bianchi e le canottiere, come nelle penombre che si infilavano nelle ore insonni. E registravo impassibile quelle immagini bollenti rubate, che mi gustavo successivamente nel ricordo, con calma, nei miei sospiri solitari e nei miei prolungati ritardi al bagno. Come si gusta una caramella dolce rubata da un vassoio d’argento.

Finché una notte il belloccio non si portò quella riccia dell’altra classe con due tette sproporzionate che parlava sempre un casino. Sì, se la portò proprio in camera nostra, in camera mia, mentre io e i due sgherri avevamo appena preso a dormire, dopo le solite ore di sofferto teatrino. Quella sera non si era visto e ricomparve a quell’ora, saranno state le 4 e se la portò proprio nel suo letto, che era proprio a un metro dal mio. E quello fu il momento peggiore.

Il mio senso di inadeguatezza si fondeva con la mia vergogna. La gelosia furente si distraeva solo con l’umiliazione di sentire gli altri due, svegliatisi di colpo, che, per mascherare il loro disagio, cominciarono a mettermi da mezzo, sfottendo la mia disgraziata posizione nella camera e il mio ormai non più tanto celato desiderio di essere al posto della riccia. Proprio in quel momento…

Lì, nella notte inoltrata di una muffosa camera d’albergo di montagna, raggiunsi il centro del vortice, che mi aveva travolto e trascinato così in basso, da non avere avuto la forza di pronunciare più una parola e forse anche di smettere di respirare per lunghi minuti, tra i cigolii del letto di fianco che mi graffiavano l’orecchio, gli insulti sbracati dei due invidiosi e soprattutto tra i gemiti incrociati di due voci molto differenti tra loro, che risuonavano stonate.

Avrei avuto voglia di correre, uscire fuori e fuggire al gelo verso una montagna lontana. Avrei avuto voglia di raccontare i miei palpiti ad una voce accogliente. Avrei avuto voglia di essere io nel letto di fianco. Avrei voluto davvero scendere dal letto e prendere quei due schifosi a bastonate. Ma restai immobile, ghiacciato, contorto, aspettando il giorno in cui sarei stato capace di essere veramente me stesso.

Matteo Ricci


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