L’intervento di Renato Sabbadini, co-segretario generale di ILGA

  

Care amiche, cariamici,

è per me un onorepoter fare oggi ad Arcigay, a nome dell’Associazione Internazionale lesbica,gay, bisessuale, trans e intersex – ILGA – i migliori auguri per i suoi, per inostri, primi 25 anni.

Dovete e dobbiamoessere orgogliosi del cambiamento prodotto nella cultura di questo Paese inquesto arco di tempo. Un Paese reale che, come mostra anche l’ultimo sondaggiodi Eurispes, è molto più avanti della classe politica che purtroppo crede dirappresentarlo.

Credo sia importantedare la lettura giusta alle aggressioni omofobiche degli ultimi anni, che sonosì un fenomeno odioso da denunciare con forza e reprimere, ma allo stesso temporappresentano soprattutto la prova inequivocabile che un numero sempre maggioredi persone omosessuali e trans scelgono la visibilità senza più nemmenopensarci, senza forse nemmeno rendersi conto che hanno sconfitto il principaleavversario delle persone LGBTI in Italia negli ultimi 60 anni, cioèl’autocensura.

Per molti giovani ciòpuò sembrare addirittura ovvio, banale. A me che sono nato negli anni ’60sembra un progresso straordinario e sono convinto che la pensi così anche lamaggioranza delle persone LGBTI del nostro pianeta, per le quali la scelta trainvisibilità e visibilità ancora oggi è una scelta tra la vita e la morte o trala libertà e il carcere.

Il merito di questocambiamento non è solo di Arcigay – va riconosciuta la strada aperta dal FUORI- ma certamente Arcigay, poi Arcigay-Arcilesbica, poi Arcigay e Arcilesbica, leloro strutture territoriali, i loro circoli e – soprattutto – i loro soci e leloro socie vi hanno svolto e svolgono la parte principale.

Certo, non c’è ancorail matrimonio, né una legge contro le discriminazioni, ma se ci guardiamo ingiro in Europa occidentale, laddove queste conquiste oggi sono realtà, vediamoche i tempi lunghi, cioè superiori ai 25 anni, sono la regola. Da questo puntodi vista, è la Spagna, timidamente imitata dal Portogallo, a rappresentare lafortunata eccezione nell’Europa meridionale.

Né dobbiamodimenticare che la rivendicazione del matrimonio è una conquista relativamenterecente della nostra stessa base associativa e della comunità più in generale.Ricordo ancora le difficoltà che c’erano negli anni ’90 a mobilitare molti socie molte socie nella raccolta di firme per le proposte di leggi sulle unionicivili. Col senno di poi, bisogna riconoscere che probabilmente non poteva cheessere così, perché a molti – soprattutto nel mondo maschile – ciò che si avevanegli anni ’90, i circoli, i bar, le saune, sembrava talmente migliore diquanto c’era negli anni ’80 e ’70, che sembrava poco realistico chiedere dipiù, e forse non ci si pensava neppure.  

Ma la comunità ècresciuta, è maturata, grazie anche allo stimolo che veniva dalla componentepiù militante della nostra associazione ed oggi è perfettamente naturale,soprattutto tra i più giovani di noi, non aspettarsi nulla di meno cheun’eguaglianza completa, un riconoscimento di pari diritti e dignità veri. Daquesto punto di vista il processo di maturazione indotto da Arcigay èperfettamente in linea con quello di tante altre associazioni che oggi compiono25 anni di vita.

ILGA, con i suoi 32anni, è poco più vecchia di Arcigay, è risulta abbastanza facile – perlomeno ame – vedere in entrambe le organizzazioni lo stesso tipo di cammino evolutivo,non solo sotto il profilo delle rivendicazioni, ma anche sotto molti altri. Inun certo senso, sia ILGA che Arcigay sono entrate nella fase più matura dellapropria vita dopo una gioventù di grandi passioni e impegno. Entrambe leorganizzazioni hanno ridato vita al movimento, hanno indicato la via a milionidi persone ed hanno indotto o contribuito alla nascita di numeroseorganizzazioni più piccole, più specializzate o più localizzate.

Ma proprio per questo,tanto Arcigay, quanto ILGA, sono vittime del proprio successo, avendo creato avolte, involontariamente, aspettative irrealistiche nei propri confronti daparte di soci e socie, poiché apparivamo molto più forti di quanto non fossimoin realtà. Un’altra conseguenza del nostro successo è che oggi ci ritroviamo -e, ammettiamolo, con una certa difficoltà – a non essere più le soleprotagoniste del movimento, ma comprimarie di nuovi soggetti impegnati alavorare sulle stesse tematiche.

Ma la maturità è anchequesto: rinunciare alla pretesa di rappresentare tutto quanto è nato anchegrazie al nostro lavoro per costruire invece insieme ad altri un nuovoconsenso, riconoscendo il contributo e le differenze di ciascuno. Perché ilbene più grande è l’unità di tutte e tutti coloro che lavorano per un mondosenza discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere.Perché senza questa unità, le nostre conquiste non si consolideranno laddovesono arrivate, né si espanderanno laddove ancora non ci sono.

Ed è proprio sullenostre divisioni – non dimentichiamolo – che puntano i nostri avversari.Pensate solo come a livello mondiale i fondamentalismi religiosi giochino lacarta (falsa) della rivendicazione di pari diritti e dignità da parte nostra,quando non addirittura la nostra stessa esistenza, presentandole come costruttooccidentale, come elemento totalmente estraneo alle culture non europee (o,come fa la Chiesa in Europa, come elemento esclusivamente moderno eilluminista).

E pensate come allostesso tempo le forze più guerrafondaie e neo-colonialiste tentino diarruolarci in una causa che nulla ha a che vedere con il rispetto di tutti idiritti umani per tutte e tutti, rinforzando a sua volta la propaganda deifondamentalismi.

Solo con un’alleanzavera, basata sul riconoscimento della pari dignità di tutte le culture, tramovimenti LGBTI di tutto il mondo potremo vincere i fondamentalismi senzacadere nella trappola di un nuovo imperialismo "umanitario".

Ma le sfide più grandiper arrivare all’unità dovremo affrontarle al nostro interno, all’interno delmovimento. La prima sfida si riallaccia a quanto detto poc’anzi, ossia allacapacità di riconoscere la validità di percorsi di lotta contro lediscriminazioni diversi dai nostri, e – dal punto di vista di noi europei -dalla capacità di resistere alla tentazione di leggersi come "sorelle efratelli maggiori"  pronti a insegnareagli "ultimi arrivati" come si fa un movimento, e dalla disponibilità adapprendere anche da chi crediamo non abbia nulla da insegnare.

La seconda sfida èquella di mantenersi indipendenti, malgrado la necessità di rivolgersi aesterni per ottenere le risorse necessarie al raggiungimento degli obiettivi ea far funzionare le organizzazioni. Solo con la messa in atto di una democraziainterna reale sarà possibile resistere alla tentazione di considerare isoggetti finanziatori, siano essi pubblici o privati, più importanti della baseassociativa. Fare diversamente significa convertirsi nell’ennesima ONG, moltopoco NG, priva di una reale rappresentatività dei soggetti nel cui nome affermadi volersi battere. 

La terza sfida èquella della ricerca di un equilibrio tra militanza e professionalità.Inevitabilmente oggi le associazioni nazionali o internazionali che raggiungonola maturità devono dotarsi anche di personale. Si tratta di una fase moltodelicata, che se gestita male porta a fraintendimenti suoi ruoli ed arisentimenti da parte di chi dedica le proprie energie all’associazione senzaalcun riconoscimento finanziario.

Il fatto è che nonsolo viviamo in un’epoca di transizione, ma di transizione frenetica a causadella velocità delle comunicazioni, ed anche attività tradizionalmente legateal tempo "libero", finiscono col risucchiare le persone che vi si dedicano inun processo sempre più esigente in termini di tempo. Nel caso diun’organizzazione nazionale o internazionale, è molto facile che l’attivitàiniziale di militante si trasformi, per quantità di tempo dedicata, inun’attività semi-professionale o professionale tout court. Ma ilpassaggio alla fase professionale genera, per forza di cose, un conflitto diinteressi tra il proprio ruolo di lavoratore e quello di chi rappresenta uninteresse che va ben al di là della propria persona. Certo, lo stesso problemasi pone nel caso dei politici di professione. Forse questo conflitto èinevitabile in una società complessa e articolata come quella di oggi, maoccorre aprire una riflessione su questo e trovare il modo per gestire questatensione, pena la perdita di motivazione dei militanti e la perdita del sensovero del proprio lavoro da parte dei dipendenti.

La quarta sfidariguarda il significato della militanza del singolo all’interno diun’associazione o di un’associazione all’interno di un’associazione più grande.La combinazione tra centralità dell’immagine nei media e nuove tecnologie rendemolto facile oggi cadere nell’illusione di poter produrre il cambiamentosociale a partire da pochi, addirittura pochissimi soggetti ben organizzati.Alcuni pensano che le associazioni abbiano fatto il loro tempo e che oggi sidebba puntare tutto sulla velocità della risposta, senza i lacci e lacciuolidelle procedure di un’organizzazione democratica.

Altri pensano che dalpunto di vista mediatico paghi molto di più identificare un’associazione con unvolto solo, anziché con un insieme di voci. In entrambi casi il risultato èquello di finire col rappresentare solo se stessi, con benefici effimeri sulpiano mediatico, ma con effetti disastrosi a lungo termine sulla capacità dicostruire consenso.

Ed è il consenso ciòdi cui abbiamo più bisogno. E il consenso o è vero o non è. E il consenso veroè quello di molti. Perché le nostre conquiste o arrivano quando sono di molti,e i nostri oppositori lo avvertono chiaramente, o non arrivano. E i moltidevono manifestarsi chiaramente: e allora l’utilizzo delle nuove tecnologie vabene se questo serve a portare più persone in piazza, ma bisogna guardarsi dalpericolo di far creder che basti firmare una petizione su Facebook perconsiderarsi attivisti. 

Perché questo vabenissimo ai pochi che vogliono che le cose restino come sono, perché la bestiache temono davvero è un’altra: è il mostro gioioso, indomabile, incontrollabilefatto da un insieme sterminato di persone che si impadronisce delle strade edelle piazze e grida con una voce sola quello che rivendica. La sincronia, lacompresenza, l’impossibilità di prendere nota di chi c’è e chi non c’è: sonoquesti gli elementi che possono fare la nostra forza e la loro debolezza.

E non è un caso che ipride riprendano proprio quella tradizione carnevalesca che tanti regimi hannocercato di cancellare o di asservire ai propri scopi in passato. Perché ilcarnevale, il pride, con le loro prese in giro del potere, restano l’espressionedel bisogno più profondo delle persone di sentirsi parte di una comunità dieguali. 

Ma militare inun’associazione non è solo fonte di forza dalla consapevolezza di appartenere aun insieme più grande: è anche fonte di conoscenza rispetto al significatodella propria militanza attuale rispetto a quella delle generazioni che cihanno preceduto, è non ricominciare ogni volta daccapo, è sapere che quello chesiamo non è un accidente di natura, ma una manifestazione della sua infinitàgrandezza.

Concludo con unaugurio ottimista: altri 25 di questi anni! Questo non perché non vogliaaugurare una vita lunghissima a tutte e a tutti coloro con cui ho militato inquesti anni, ma perché spero che tra 25 anni la discriminazione contro di noisia solo un ricordo di un’epoca barbara.

 

Grazie, un abbraccio atutte e tutti

Renato Sabbadini,

co-segretario generaledi ILGA


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