Lettera di Arcigay a Giuliano Ferrara su Micromega

  

Gay e diritti, lettera aperta a Giuliano Ferrara

Caro Ferrara,

Intanto mi permetta di ringraziarla per aver voluto aprire “Radio Londra” ad una riflessione sul tema dei diritti e dell’esistenza delle persone lgbt – lesbiche, gay, bisessuali e transessuali – in realtà prendendo spunto, certo involontariamente, da una notizia che tale non è.

Non è vero infatti, che il neo Presidente di Arcigay Bari sia il primo eterosessuale ad essere eletto alla presidenza di un nostro Comitato provinciale.

Nella storia di Arcigay i precedenti sono almeno tre, di cui uno clamoroso, ovvero la ultradecennale presidenza di Arcigay Messina in capo ad una donna eterosessuale, Roberta Palermo, straordinaria per il suo impegno civile ed umano .

Forse ancora una volta si deve amaramente constatare che nel nostro Paese il grande rilievo di troppe donne non assurge ai meritati riconoscimenti, e così undici anni di presidenza e coraggiosi sacrifici dell’una sono rimasti invisibili, mentre i due giorni di visibilità dell’altro hanno fatto notizia.

Misteri misteriosi della cronaca e dintorni. Oltretutto, che qualcuno si impegni in nome di un ideale o di un progetto politico, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, non dovrebbe essere in sé sorprendente, così come non lo è, quantomeno nei Paesi europei e di solida evoluzione culturale e sociale, che persone dichiaratamente gay o lesbiche assurgano alla guida di Stati, Governi, Ministeri, grandi capitali o importanti gruppi finanziari ed industriali.

Sul piano generale è ovviamente rilevantissima la questione del “chi rappresenta cosa”, ovvero di come la rappresentanza di temi, interessi, istanze debba sempre essere prioritariamente una rappresentanza diretta e frutto di una cittadinanza attiva. Le rappresentanze indirette configurano cittadinanze passive ed ingenerano meccanismi antidemocratici e clamorosi equivoci tra concetti differenti: la rappresentanza è cosa diversa dal consenso o dalla condivisione o partecipazione.

Apprezzo ovviamente il suo ragionamento, laddove riconosce la piena libertà delle persone di essere se stesse senza distinzioni di alcun tipo. In fondo Jeremy Bentham, nel suo “Libertà di gusto e di opinione”, lo scriveva in pieno Settecento, rimarcando che uno Stato che s’intrometta nei gusti sessuali dei suoi cittadini è paragonabile ad uno Stato teocratico.

Il guaio però è che la non intromissione nella vita sessuale dei cittadini basta appena a distinguersi da uno Stato teocratico e non è sufficiente a rappresentare uno Stato laico ed equo.

La sua distinzione tra diritti e cultura omosessuale appare allora ancor più discutibile, perché sembra voler collocare i diritti su un piano di riconoscimento assolutamente privato (il diritto di esistere e fare sesso) e la cultura su un piano di riconoscimento assolutamente pubblico che ci è precluso.

Qui le nostre strade si dividono.

Le ribalto la questione: cosa intende per cultura omosessuale? E’ il rilievo culturale delle persone omosessuali?

Da questo punto di vista mi sembra indiscutibile che Michelangelo o Wilde o Virginia Woolf, omosessuali, possiedano rilievo culturale tanto quanto giustamente lo possiedono Georges Simenon o Chaplin o Pablo Picasso eterosessuali.

E’ forse la cultura omosessuale un problema, in quanto cultura di liberazione, ovvero in quanto tentativo di una minoranza di affermare il diritto all’eguaglianza non di un mero comportamento sessuale ma del ben più complesso orientamento?

Se così fosse tutte le culture di liberazione tendenti all’eguaglianza, dei neri, degli ebrei, delle donne sarebbero allo stesso modo un problema.

Il vero errore sta nel pensare che la personalità possa realizzarsi solo in una dimensione privata e non necessiti invece, sempre e comunque, di libertà di espressione pubblica.

Non si è omosessuali solo in camera da letto, ma anche nel lavoro, a scuola e in famiglia, e si deve avere diritto, se lo si ritiene, di poterlo dichiarare senza timore di essere emarginati.

Diversamente non avremmo imparato nulla, ma proprio nulla, dalla lezione della nera Rosa Parks che non scese dall’autobus dei bianchi, perché quello era anche il suo autobus, nella sua città, nel suo Paese.

Non si conquistano eguali diritti se non si combattono battaglie culturali, ma al contempo la cultura si colloca su un piano diverso dai diritti: la cultura muta, ma i diritti inalienabili delle persone non possono dipendere dal mutare delle cose: o ci sono del tutto, o non ci sono per niente.

E’ forse liberale che i pregiudizi, o le paure, o i gusti di alcuni, tanti o pochi che siano, diventino normativi fino al punto da annullare i diritti degli altri? Immagino di no.

Il matrimonio che rivendichiamo è il matrimonio civile, non quello religioso, e dunque perché uno Stato liberale dovrebbe negarcelo? Siamo uguali per i doveri fiscali e diseguali per i diritti civili? Vogliamo discuterne sul piano dei principi?

E’ la cultura europea a risponderle per me e per le persone lgbt, attraverso legislazioni che raccolgono quel principio di uguaglianza che si traduce in riconoscimento delle coppie dello stesso sesso e della loro capacità genitoriale.

No, caro Ferrara, non si possono separare cultura e diritti ignorando che sono gli ambiti ad essere diversi: sennò i mancini sarebbero ancora discriminati; avremmo ancora la patria potestà, e molte aberrazioni del Novecento tornerebbero a fare capolino.

La cultura non può essere un altrove dove dire ideologicamente “no” a delle istanze che giuridicamente meritano solo un doveroso e civilissimo “sì”.

Cordialmente

Paolo Patanè, presidente nazionale Arcigay