L’orgoglio omosex passa alla cassa

  
Economy

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Fino a pochi anni fa ignorati (o quasi) dal mass market, i 5 milioni di omosessuali censiti dall’Eurispes iniziano a essere contesi dall’industria che conta, dalla moda all’auto, dall’hi-tech al turismo. Definiti «trend setter», ovvero persone capaci di orientare i consumi, lanciare le mode e influenzare le scelte degli altri, sono un target allettante. Anche perché dispongono di un reddito superiore alla media. Negli Stati Uniti, secondo un’analisi della Grenfield Online, la famiglia gay o lesbica ha un reddito annuo di 57 mila dollari e il potere d’acquisto della comunità omosessuale nel complesso si aggira attorno agli 800 miliardi di dollari all’anno. In Italia un’indagine condotta da Gpf&Associati, la società di ricerche del sociologo Giampaolo Fabris, realizzata per conto della televisione satellitare Gay.tv, ha calcolato in 332 euro al mese la spesa media per abbigliamento e accessori: un totale di quasi 20 miliardi di euro all’anno. Non solo. Lo studio rivela che il 70% degli omosessuali italiani possiede un pc, il 74% naviga in Internet, l’88% usa il cellulare (e il 30% ha addirittura tre schede), il 60% parla una seconda lingua e il 54% è titolare di una carta di credito. E’ evidente, poi, l’evoluzione della percezione di questo target da parte dell’opinione pubblica italiana. « I vecchi tabù sì sono ridimensionati ha spìegato Fabris a Economy. «Negli anni Settanta per l’80% degli italiani l’omosessualità era sinonimo di perversione o malattia. Solo per il 20% era un’espressione di sessualità. Oggi quest’ultima interpretazione appartiene al 53 % della popolazione».

Gli imbarazzi frenano i media. I problemi, però, restano. Molti imprenditori temono di pagare uno scotto in termini di rispettabilità, autorevolezza e immagine. Così i dati sulla raccolta della pubblicità dei media specializzati in questo target ne risentono. E, pur essendo passati dai 25 milioni di euro del 1994 ai 250 milioni del 2003 (stime della società di comunicazione Kaus Davi), sono ancora lontani dai volumi sviluppati in altri Paesi, Stati Uniti in testa, dove l’advertising omosex garantisce un fatturato a nove zeri. E non mancano nemmeno casi paradossali: aziende dal calibro di Fiat e Alitalia, che investono sui mass media gay europei, ma non si azzardano ad apparire in Italia. La prima vittima di questa situazione potrebbe essere Gay.tv. Il canale satellitare per omosessuali di proprietà di Xat Production, creato nell’agosto 2001 dal gruppo olandese Corill con un investimento iniziale di 3 milioni di dollari, a marzo di quest’anno ha lanciato un grido d’allarme. « La raccolta pubblicitaria non va» ha detto Francesco Italia, direttore della rete, «e il problema principale è il marchio. Resta l’imbarazzo di fondo a proporre Gay.tv». Un problema denunciato anche dalle riviste del settore. «Molte aziende restano ostili» spiegano a Babilonia, l’unica rivista omosex venduta in edicola, che vanta una diffusione di 15 mila copie e lo scorso anno ha fatturato circa 90 mila euro. Mentre sono meno pessimisti i responsabili di Pride, distribuita gratuitamente nei locali gay. « La nostra raccolta pubblicitaria si aggira sui 24 mila euro al mese per un totale di quasi 290 mila euro l’anno. Per il mondo gay è un risultato più che apprezzabile» spiega Gilberto Sacchi, marketing manager del mensile che diffonde tra le 15 e le 17 mila copie.

I consumi sono, in parte, diversi. All’estero, al contrario, da tempo i gay e le lesbiche sono considerati un target di mercato a tutti gli effetti. E si parte dal presupposto che esista uno standard package di consumi parzialmente diverso rispetto alla popolazione eteroessuale. "Tale da giustificare proposte mirate di mercato» precisa Fabris. E c’è persino un indice statistico ad hoc: il Gay index. Ideato dall’economista Rihard Florida, della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, in Pennsylvania, è capace di determinare, insieme con gli indici bohémien e dell’élite hitech, il grado di prosperità delle singole città o, addirittura, nazioni. L’equazione è semplice: più i luoghi mostrano creatività culturale, apertura mentale e capacità di accoglienza, più sono in grado di attirare gay, artisti e aziende hi-tech, con i loro esperti d’informatica. Persone creative considerate il vero motore dell’economia della conoscenza.

Così anche in Italia alcune aziende cominciano a investire. Tra quelle che hanno contribuito a rompere il tabù della pubblicità gay spiccano Pirelli (precursore con uno spot nel 1994), Benetton, Campari, Valtur, Ikea, Sony Ericsson e Renault. «Nel 2003, su proposta dell’agenzia Saatchi & Saatchi, abbiamo fatto girare su Gay.tv e Mtv uno spot della Clio realizzato per i gay» spiega Angelo Bencivenga, advertising manager di Renault Italia. «Con un investimento di 50 mila euro abbiamo ottenuto una visibilità notevole».

Un business da 2,7 milioni su Internet. E’ un successo anche l’esperienza del sito Gay.it. Nato nel 2000, l’anno del World gay pride day di Roma (la cui concomitanza con il Giubileo ha suscitato polemiche, ma che dal punto di vista economico è stato un successo: 60 milioni di euro di giro d’affari), su iniziativa di Alessio De Giorgi, ex dirigente d’azienda, con una capitalizzazione iniziale di 1 milione di euro, è partecipato al 45% dal gruppo statunitense Planet Out Partners. Sito leader in Italia e ottavo nel mondo nel settore, conta 300 mila visitatori, oltre 6 milioni di pagine viste al mese e 50 mila utenti registrati (dati Carat Geoconsulting) « Siamo partiti quasi per gioco. I primi tentativi risalgono al ’97. Volevamo realizzare una comunità gay in un momento in cui in Italia esisteva poco o niente» spiega De Giorgi, che ha chiuso il 2003 con un giro d’affari di 2,7 milioni di euro (+10% sul 2002). «Forniamo servizi e contenuti informativi a tutto campo. I nostri utenti coprono tutte le fasce d’età, ma i giovanissimi sono in aumento» continua De Giorgi. «Merito del cosiddetto coming out anticipato, ossia il prendere coscienza di sé e della propria sessualità. Se fino a qualche anno fa questa fase avveniva intorno ai 24 anni, oggi la soglia si è abbassata: 14 anni è la media ».

La prima carta di credito è arcobaleno. Anche il mondo bancario sta cominciando ad affacciarsi timidamente su questo mercato, spinto dalla propensione dei gay alla spesa. A fare da apripista, la Finemiro Banca di Bologna (gruppo Sanpaolo Imi), che nel 2000, in collaborazione con il circuito MasterCard, ha emesso la prima carta di credito studiata per gli omosessuali. Si chiama Rainbow, dall’arcobaleno simbolo della comunità, ed è l’unica in Italia a riconoscere le coppie gay. Cioè permette ai possessori di ottenere una carta aggiuntiva per i compagni senza pagare alcuna commissione. «II progetto, nato per iniziativa di Franco Grillini, deputato Ds, è partito nel 2000» spiega Michela Manuelli, operation manager di Finemiro. «A convincerci ad accettare la sfida è stata un’analisi più attenta del mondo gay: è composto da persone con un reddito medio-alto e con un’elevata propensione all’acquisto». I risultati, però, tardano ad arrivare. «Finora abbiamo emesso circa 1.000 carte» prosegue Manuelli «ma sono allo studio nuovi approcci di marketing. Che, siamo certi, funzioneranno». Ne è convinto anche Grillini, che è presidente onorario di Arcigay, l’associazione non-profit con 270 mila tesserati: «Rainbow ha un notevole grado di fidelizzazione: chi l’ha scelta non l’ha più restituita. E non è cosa da poco, in un mercato in cui il turn-over di carte di credito è vicino al 25 % ».

I servizi si stanno specializzando. Quella dei servizi per la comunità omosessuale sembra essere una strada percorribile. A testimoniarlo, anche l’esperienza dell’associazione Gayus che dalla primavera 2003 fornisce consulenza giuridica specializzata a gay e lesbiche. « La nostra attività ha una triplice funzione» spiega Alberto Baliello, presidente dell’organizzazione, a cui fanno capo 50 professionisti tra avvocati e magistrati. «Promuoviamo seminari sull’omosessualità per sensibilizzare l’opinione pubblica. Forniamo una consulenza giuridica vera e propria. Finora, abbiamo cercato di aiutare circa 250 persone. Infine, collaboriamo alla stesura di proposte di legge specifiche. Un esempio? Il Patto civile di solidarietà che, elaborato sull’esempio del Pacs francese, punta all’approvazione di una legge che riconosca reciproci diritti alle coppie di fatto, comprese quelle omosessuali».

Aurelio Mancuso

Aurelio Mancuso

Anche l’Arcigay fornisce servizi di consulenza, ma si è concentrata sul lavoro. «Da qualche anno» spiega Aurelio Mancuso, segretario nazionale dell’associazione, «abbiamo attivato, in collaborazione con la Cgil, degli sportelli che forniscono assistenza a tutti coloro che subiscono discriminazioni a sfondo sessuale sul posto di lavoro. Siamo presenti in quasi tutte le regioni e diamo una mano concreta a migliaia di persone in difficoltà. Inoltre abbiamo allo studio la realizzazione di strutture per ragazzi abbandonati dalla famiglia e per anziani soli, ovviamente gay. E’ un progetto ambizioso e per concretizzarlo contiamo anche sui fondi dell’Unione europea stanziati annualmente a sostegno di progetti antidiscriminazione».

In vacanza con un’agenzia doc. La capacità di maggior spesa e la volontà di raggiungere località estere dove vivere più liberamente la propria omosessualità, ha fatto decollare anche il mercato del turismo specifico. Tanto che in Italia hanno iniziato ad aprire i battenti le prime agenzie di viaggio specializzate nell’offerta di pacchetti studiati su misura per questo bacino d’utenza. Stando ai dati Eurisko, elaborati per conto di Gay.it, gli omosex, rispetto agli eterosessuali, vanno molto più in vacanza: +14%. Inoltre, sono in grado di spendere cifre importanti, anche 3-4 mila euro per viaggio. E, sebbene le agenzie tradizionali la facciano ancora da padrone, i tour operator gay friendly cominciano a farsi strada. Lo dimostra l’esperienza di Zipper Gay Travel di Roma, l’unica realtà italiana a far parte dell’Intemational gay & lesbian travel association (Iglta), la più importante organizzazione di settore a livello mondiale. «Nel ’97 abbiamo fondato la prima agenzia specializzata in Italia. L’idea ci è venuta guardando quanto accadeva già dagli anni 70 negli Stati Uniti: tour operator specializzati che facevano affari offrendo a un target ben preciso pacchetti studiati ad hoc e sfruttando convenzioni con strutture esclusivamente gay» spiega il titolare Marco Conte, che può vantare una crescita dalle poche decine di milioni di vecchie lire di fatturato di 5 anni fa a quota 300 mila euro del 2003 e ora sta pensando di lanciare un progetto in franchising. «Nel nostro Paese, sebbene in aumento, sono ancora pochi i villaggi e gli alberghi omosex. Alcune località, però, risultano più gettonate di altre. A cominciare da Taormina, Rimini e Torre del Lago, in Versilia. La maggior parte dei nostri clienti (1.000 – 2.000 l’anno) preferisce ancora l’estero, dove accanto a mete storiche quali Gran Canarie (Spagna), Mikonos (Grecia) e Miami (Usa), si stanno imponendo destinazioni più esotiche. Australia, in primis». Stesse scelte anche per i clienti dì Out Travel, il tour operator nato in seno al portale Gay.it, a cui fanno capo ben 15 agenzie off-line, e che nel 2003 ha fatturato 680 mila euro.

Tempo libero: affari per 600 milioni. Pietra miliare dell’imprenditoria gay restano, però, le attività legate al mondo del divertimento: più di 150 locali, bar e pub gay sparsi in tutta l’Italia, una cinquantina di discoteche, decine di saune specializzate e centri fitness. Sul fronte dell’ospitalità, cominciano ad affermarsi gli agriturismo, i bed & breakfast e gli hotel creati ad hoc. Sempre più diffuse, poi, le strutture modello friendly, ovvero disposte ad aprire le porte agli omosessuali, magari organizzando serate specifiche (nel caso dei locali) od offrendo pacchetti speciali (nel caso dei villaggi).

Resta, però, difficile quantificare il giro d’affari del settore. Non esistono dati ufficiali in merito, anche se gli operatori fanno qualche ipotesi e parlano di un business da almeno 600 milioni di euro per le sole strutture gay. « E’ una realtà in fermento» commenta Mancuso. «Gli omosessuali amano comunicare, incontrarsi tra loro e, pur di farlo, sono disposti a macinare chilometri e spendere cifre notevoli: anche qualche centinaio di euro a serata». Le mete predilette restano le grandi città, con Milano e Roma in testa. Nel capoluogo lombardo c’è quella che aspira a essere la prima gay street italiana, via Sammartini (nella zona della Stazione centrale). Nata sul modello delle realtà londinese e parigina, questa strada offre per ora un disco bar, un ristorante, un sexy shop e una sauna, ovviamente specializzate. Come è specializzato il Glounge, il dj bar di zona Duomo nato per soddisfare le esigenze della comunità gay. «Abbiamo inaugurato il locale all’inizio del 2002 perché convinti che il target gay, che rappresenta il 60% circa della nostra clientela, potesse garantirci introiti interessanti anche in un momento di crisi» spiega Sabrina Falcone, responsabile dell’esercizio. A Roma, invece, accanto ai numerosi locali a tema, dal 2002 c’è il Gay Village, una fiera del divertimento omosex aperta nei mesi estivi che è in grado di accogliere centinaia di migliaia di clienti.

Ci sono, poi, i locali di tendenza che, seppur frequentati perlopiù da clientela eterosessuale, sono un punto di riferimento anche per la comunità gay. Un esempio per tutti: il Noy di Milano, uno spazio multifunzionale di 700 metri quadrati suddiviso tra bar e ristorante. «Il nostro è un locale gay friendly che si posiziona su un target medio-alto» spiega Paolo Janni, amministratore delegato del club che pensa di chiudere il 2004 a quota 2,5 milioni di euro di fatturato e dà lavoro a 40 persone.

L’universo gay però non è solo divertimento, ma anche cultura. A Milano e a Torino si svolgono due festival internazionali di cinema omosessuale, e non manca neppure lo spazio per le librerie specializzate, come la Babele che ha due sedi, a Milano e a Roma, e raccoglie oltre 7 mila titoli di tematiche omosex.

Gli Usa indicano la strada ai negozianti. Una realtà tutta da scoprire, invece, sono i negozi con un’impronta gay. Ancora pochi in Italia, sono un’interessante nicchia di mercato su cui puntare.

L’esempio più importante è fornito dal Castro Market di Milano, l’unico minimarket dedicato alla vendita di prodotti esclusivamente gay. Dal nome del quartiere omosessuale più famoso del mondo, il Castro di San Francisco (Usa), il negozio propone, accanto ai numerosi gadget con i colori della bandiera gay (rosso, arancione, giallo, verde, azzurro e viola), una gamma completa di prodotti di uso comune.

Si va dall’intimo – perlopiù Calvin Klein e 2(x)ist – all’abbigliamento vero e proprio (molto gettonata la marca canadese Priapa), dagli accessori ai prodotti a sfondo erotico, dalle idee regalo agli articoli per la casa. «Abbiamo vissuto per tre anni a San Francisco. Lì ci sono interi empori dedicati al mondo gay. Castro Market è nato nel 2000 proprio dall’idea di realizzare anche in Italia quello che esiste già da anni all’estero» raccontano i titolari Maurizio Goretti e Gino Monopoli, che hanno chiuso il 2003 con un fatturato di 380 mila euro e una crescita sul 2002 pari al 15% circa. « Gli affari vanno bene, grazie al sempre crescente interesse da parte della comunità omosessuale per i prodotti specifici, che compra anche online su www.castromarket.it».


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