Lui gay, lei lesbica: così abbiamo avuto due gemelli

  

ASTI – Una storia di coppie: lui e lui, lei e lei, e due gemelli di tre anni, maschio e femmina. Il sesso dei bambini – tanto bene assortiti da accontentare tutti in famiglia – è «pura casualità», l’unica in questa storia di gravidanza a quattro, pianificata in un centro privato di fecondazione assistita, a Bologna.

O forse ce n’è un’altra: il primo incontro. Palio di Asti, estate 2000. Pietro, che allora aveva 38 anni, professione interprete, e Marco, 29, un archeologo che si adatta a fare la guida nei musei alle scolaresche in gita, incrociano quelle che chiamano «le ragazze». Due chiacchiere, si parla di tortellini, del vino della Franciacorta. «Ci troviamo simpatici. Così capita di incontrarci ancora, e poi ancora. Sulle prime non avevamo capito che loro, le ragazze, fossero una coppia omosessuale. E lo stesso dall’altra parte: loro non avevano capito che Marco non era un semplice amico, ma il mio compagno», racconta adesso Pietro nel tinello della casa che i due dividono ad Asti, un centinaio di metri in linea d’aria dal casello dell’autostrada.

Quando lo capiscono, comincia un nuovo capitolo della storia. Da qualche tempo lei&lei cullano il desiderio di avere un figlio. Le ragazze proprio ragazze non sono: già viaggiano verso i 40. Ne parlano in quattro. «I primi mesi era uno scherzo, il nostro scherzo. Poi, piano piano, le cose sono cambiate – riprende Pietro -. Il progetto di un bambino l’avevo anch’io, anche se un figlio, all’epoca, c’era già, avuto dalla mia ex moglie: sono stato anche sposato prima di capire che potevo dividere la vita solo con un uomo». Ne parlano, dunque. Non che fossero i primi a cui le ragazze confessano il progetto, ma qualcosa era sempre andato storto. «Un paio di amici prima avevano detto sì, poi si erano tirati indietro. Del resto, di un eterosessuale non si fidavano: e se poi quello avesse preteso di vivere come una famiglia "normale", papà, mamma, bambino, estromettendo la compagna di lei e stravolgendo le loro vite?». Già: e se quello poi avesse preteso? «C’era la possibilità di andare all’estero e ricorrere a una banca del seme, quindi a un donatore anonimo, ma era l’ultima spiaggia», dice lui. Ci vuole un papà, con una faccia e un nome, hanno sempre ripetuto le ragazze. «E su questo sono d’accordo anch’io. L’estate del nostro incontro ero da poco rientrato dall’Olanda, dove ho vissuto per un anno. Lì le coppie gay possono avere figli, li ho visti crescere, stare insieme, formare una famiglia vera. Insomma, non ho mai pensato a questa idea della paternità gay come a un tabù».

La seconda svolta è in un centro privato specializzato nella procreazione assistita, il Tecnobios, a Bologna, struttura con una certa reputazione nel campo: il consulente scientifico è un nome di peso, Carlo Flamigni («L’ospedale pubblico no, c’erano attese troppo lunghe», spiega Pietro). E’ il 2001. Si presentano tutti e quattro, ma un po’ bleffano o, come dice Marco, raccontano «la verità, ma solo una parte»: nessun accenno all’omosessualità. Pietro e Laura (la ragazza della due che diventerà mamma, il nome è di fantasia, ha acconsentito a raccontare la storia a patto di restarne fuori, lei e i bambini) iniziano la trafila: si presentano come una coppia che ha difficoltà ad avere figli. Lei ha un problema alle tube, che rende plausibile il ricorso ai medici. Lui qualche problema di «robustezza» degli spermatozoi. Ricorrono a una Fivet, fertilizzazione in vitro e trasferimento dell’embrione nell’utero. Possibilità di successo: il 30%, per ogni coppia di embrioni impiantati. Per i centri di fertilità è routine . «Nell’estate del 2001 Laura è restata incinta. Alla prima ecografia, poi, abbiamo saputo che i bambini erano due». Dal punto di vista tecnico, tutto secondo le regole, persino secondo le nuove regole della legge 40: Pietro è il vero padre dei bambini; Laura è la vera mamma. Omosessuali, d’accordo: ma fanno tutto in casa, l’«incrocio» evita il ricorso a qualcuno o qualcosa estraneo alla coppia.

I gemelli nascono nel marzo del 2002. Vivono con la mamma e con la compagna della mamma, a cinquecento chilometri da Asti. Pietro e Marco li raggiungono, un fine settimana sì e uno no. «E ogni volta che ci vediamo è una festa. I bambini sono una meraviglia, sereni, vivacissimi. Hanno ben chiaro chi chiamare papà e chi mamma: su questo ci siamo accordati fin da subito». Il papà è Pietro, la mamma è Laura. Marco è lo zio, la compagna di Laura è la zia. «Sono felici quando ci vedono tutti e quattro insieme: siamo la loro famiglia, i loro punti di riferimento. Alla gita dell’asilo hanno voluto che andassimo tutti. Certo, quando cresceranno cominceranno a farsi delle domande. E allora riusciremo a trovare le risposte giuste per spiegare questa famiglia strana, che però funziona».

Regole chiare, raccontano. «Prima regola: i bambini cresceranno con la mamma e con la zia. Su questo non c’è mai stata discussione. Più avanti, potranno passare un po’ più di tempo con noi, qui ad Asti». La cameretta c’è già, nella casa di Marco e Pietro. Una stanza matrimoniale, con un armadio senz’ante pieno solo di abiti maschili; una cucina per piatti veloci; e un locale, la cameretta, dove per ora c’è solo il computer e una galleria di foto: i gemelli con la torta il giorno del compleanno, in costume per la prima estate al mare.

Al battesimo («fosse per me, ne avrei fatto a meno, ma ci teneva la mamma di Laura e l’ha spuntata»), Marco ha fatto da padrino e la compagna di Laura da madrina. Un intrecciarsi di ruoli e gesti per stringere un legame a quattro che, per legge, non vale niente. Quante sono le coppie così? Esiste un baby boom lesbico, o gay, come titolava un paio d’anni fa una rivista omosessuale? I dati sono pochi. Eccone uno (ben accreditato): la metà delle coppie omosessuali conviventi con meno di 30 anni desidera un figlio. Ma solo una su dieci ricorre alla fecondazione assistita. La metà ci prova con il metodo di sempre: cerca qualcuno che faccia da padre, senza però «pretendere» troppo. Laura e la sua compagna sono in minoranza. Pietro e Marco sono mosche bianche. «Altri che hanno fatto come noi? No, io non ne ho mai incrociati. Almeno in Italia».


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