La famiglia: alla radice di un ossimoro

  

* il Prof. Roberto Bin è docente di Diritto Costituzionale presso ‘università di Ferrara

(Questo articolo è stato pubblicato in "Studium Iuris" 2000, 10, 1066 ss. e in "Lavoro e Diritto" 2000)

1.Le scale di Escher
È noto che l’art. 29 Cost. rappresenta uno dei sommi esempi di mediazione linguistica nella scrittura della costituzione. "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" è una proposizione impossibile, una specie di equivalente legislativo delle scale di Escher. Verrebbe da dire che ha un senso, ma non un significato: ossia muove reazioni emotive abbastanza precise sul piano ideologico, ma non si traduce in regole giuridiche che possano basare un ragionamento argomentativo serrato.
L’idea di una "società naturale" porta con evidenza a postulare l’esistenza di un qualcosa che precede il diritto e lo Stato. Con coerenza l’art. 29 affermerebbe perciò che la Repubblica "riconosce" i diritti della famiglia, come a voler dire che questi preesistono all’ordinamento giuridico repubblicano, perché derivano dalla "natura delle cose" e non dal diritto stesso. È l’antica pretesa giusnaturalistica, riscoperta e riproposta dalla parte cattolica dei costituenti e degli interpreti della costituzione. È una pretesa mai sopita. Introducendo di recente il convegno nazionale dei giuristi cattolici del 1997 – che pure aveva l’inquietante titolo "Quale famiglia?" – Giuseppe Dalla Torre esordisce proprio così: la costituzione concepisce la famiglia "come formazione sociale funzionale allo svolgimento della persona, precedente allo Stato e che questo non può che riconoscere".
Se la locuzione "società naturale" ha un qualche significato per il diritto, non credo che possa averne uno diverso da questo. Ma se questo è il significato, si apre un vasto panorama di contraddizioni pratiche ed ermeneutiche.

2. Esiste un concetto "naturale" di famiglia?
Prima contraddizione: esiste un concetto "naturale" di famiglia? Questo è il punto su cui hanno maggiormente insistito i critici di questa concezione. Si sa, tutti gli studi storici, antropologici, sociologici, economici ecc. ci confermano che la famiglia e un’istituzione estremamente mutevole, per dimensione, organizzazione, funzione. Non occorre neppure analizzarla con strumenti sofisticati, perché appartiene alla stessa nostra esperienza diretta l’incredibile mutazione che la famiglia italiana ha subito nel corso di una o due generazioni. Oltre i confini geografici e storici della nostra esperienza diretta, poi, qualsiasi unità del concetto di famiglia si perde. E allora, cosa connota questa "società naturale"? Mi posso immaginare due tipi risposta, una in chiave psicologica, l’altra in chiave culturale.
La prima potrebbe portarci a dire che la "famiglia", qualsiasi ne sia l’estensione, l’organizzazione o la funzione, è comunque "naturale" nel senso che appartiene ai bisogni umani fondamentali, imprescindibili, legati alla socialità dell’uomo, alla sua riproduzione, alla sua affettività, al suo bisogno di riservatezza. La famiglia, insomma, denoterebbe quel primo e indispensabile esempio di "formazione sociale" di cui l’art. 2 Cost. garantisce e, ancora una volta, "riconosce" l’esistenza (non a caso, essendo l’art. 2 l’altra clausola "giusnaturalistica" della costituzione),.
Ma se così fosse, dovremmo ritenere che l’art. 29 ci rimanda ad un concetto estremamente ampio, destrutturato, di ‘famiglia’. Se ad essa si indirizza un bisogno "naturale" della persona, la ‘famiglia’ allora può assumere tante forme organizzative quante sono i modi in cui ognuno realizza la propria personalità. L’art. 29 verrebbe perciò ad essere letto come una garanzia di autonomia, di "autogoverno", ad un livello sociale minimo, di cui ognuno è padrone di individuare la fisionomia senza ingerenze dell’apparato pubblico: sarebbe una garanzia dall’estensione assai simile a quella apprestata dall’art. 8 della CEDU ("Toute personne a droit au respect de sa vie privée et familiale"). È chiaro che allora, per esempio, non vi sarebbe modo di negare la perfetta (nel senso di eguale) legittimità anche della famiglia omosessuale, così come di ogni altra formazione familiare "anomala". Anzi, proprio per l’elementare rispetto di questa sfera di intimità sociale che è la famiglia, nessuno — esterno a quel nucleo – dovrebbe poter esprimere giudizi sui comportamenti che in essa si tengono e tanto meno farne derivare conseguenze giuridiche. Il fatto che, per esempio, nella famiglia omosessuale non vi sia lo "scopo riproduttivo" — a parte il fatto che ormai è solamente un problema tecnologico o semmai, se passano oscure leggi, un limite giuridico, quindi convenzionale — non può certo incidere sulla garanzia riconosciuta ad essa: nessuno dubita che anche le famiglie "normali" che, per scelta o meno, siano senza figli sono ciò nonostante, almeno sotto un profilo giuridico (diversamente da quello acustico), perfettamente "famiglie". Anzi, si potrebbe ragionare proprio all’incontrario: tanto più si ritenesse che non solo la "famiglia", ma proprio la famiglia riproduttiva, è un bisogno "naturale" della persona, tanto più si dovrebbe concludere che sia il "riconoscimento" del nucleo familiare, sia il diritto alla procreazione assistita devono essere assicurati a tutti, come "diritto inviolabile dell’uomo" alla realizzazione della propria personalità (ancora l’art. 2 Cost.).

3. "Natura" e tradizione
È evidente la contraddizione pratica tra questa conclusione e le premesse ideologiche di chi muove da una lettura "naturalistica" dell’art. 29. Dal suo punto di vista, sono conclusioni del tutto inaccettabili, che lo spingono a praticare l’altra strada, quella che ho definito della risposta culturale. È una risposta che sfrutta varianti tipiche dello schema classico di pensiero giusnaturalistico, che si basano su argomenti come la "normalità" dei casi o la tradizione culturale.
La variante della "normalità" è davvero debole. Certo, nella "normalità" dei casi, per nostra stessa esperienza, quando si parla di "famiglia" si pensa a qualcosa che non c’entra affatto con la coppia omosessuale o con altre combinazioni di vita.
Ma sarebbe un argomento spendibile, questo? Assai poco, perché se è sul costume sociale che si deve basare la nozione di "famiglia", sul "medio sentire", allora perde di qualsiasi prescrittività il concetto di famiglia "naturale". La famiglia non preesiste affatto allo Stato, perché si evolve (come di fatto si evolve) con la stessa rapidità dei costumi sociali e delle leggi che li governano. Spetta al corpo rappresentativo, al Parlamento, al legislatore (a chi altro se no, in una democrazia rappresentativa?) interpretare l’evoluzione sociale, e quindi l’art. 29 andrebbe letto come se fosse scritto "la famiglia è una formazione sociale definita dal legislatore": sarebbe la fine di qualsiasi tentativo di uso forte, prescrittivo, costituzionale (nel senso di sovrapposto alla legge) della famiglia. I "diritti" della famiglia non preesisterebbero più alla legge, ma sarebbe la legge a crearli.
Non resta dunque che appellarsi alla tradizione culturale, a quel concetto di famiglia che ci deriva dal passato, di cui è intrisa la nostra cultura, a cui certo non sono affatto estranei i valori della religione cattolica. È la famiglia che si basa sul matrimonio, come patto indissolubile tra persone di sesso diverso e teso, come suo elemento costitutivo almeno tendenziale, alla riproduzione. In una parola, la famiglia legittima. È talmente compenetrato nella nostra cultura questo concetto di famiglia che il nostro stesso codice civile non sente neppure il bisogno di definirla: intesta alla famiglia il libro primo, la richiama per un’infinità di cose (il domicilio del minore, la determinazione dell’assegno alimentare, i doveri dei coniugi e la loro residenza, ecc.), ma non dice mai che cosa sia; il Capo VI s’intitola "Del regime patrimoniale della famiglia", ma esordisce identificando il patrimonio familiare con il regime patrimoniale tra i coniugi; e quando disciplina il matrimonio, in nessun punto prescrive esplicitamente che i coniugi debbano essere di sesso diverso. Lo dà per scontato.
Nulla di inedito: agli inizi del secolo, su pressione dei movimenti femministi, si "scoprì" che nessuna norma dell’ordinamento completava il sesso (maschile) come presupposto dell’elettorato attivo e passivo: era un dato appartenente alla "natura delle cose", così come lo è l’eterosessualità della famiglia. Fu una famosa sentenza di Mortara, del 1906, a sfatare questa "ovvietà" ragionando in termini di rigore giuridico: ma non bastò a cambiare la forza della tradizione culturale che riteneva le donne quantomeno "inadatte" al voto. Tradizioni culturali, appunto.

4. "Natura" e diritto
Non mi sembra utile contestare questa impostazione sul piano dei valori, in termini di contrapposizione tra modelli ideali di organizzazione umana e sociale. Né mi sembra decisivo segnalare alcune difficoltà "periferiche" che la tradizione culturale può incontrare, per esempio, di fronte alla rottura del dogma dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale o ad altri profili attinenti, tutto sommato, ad aspetti contingenti della legislazione positiva. Vi sono aporie ben più fondamentali che questa concezione deve affrontare.
Predicare della famiglia che essa è una società "naturale" e, ad un tempo, fondata sul "matrimonio" è predicare attributi tra loro incompatibili, dato che il matrimonio è un istituto giuridico che non appartiene affatto alle forme "naturali" dell’organizzazione sociale, ma a quelle convenzionali, determinate dalle regole contingenti poste dalla legislazione vigente. Non è affatto "naturale" che la gente si sposi, anche se la maggioranza lo fa (anzi, alcuni lo fanno più volte): è una libera scelta da cui derivano specifiche conseguenze giuridiche.
Questo, d’altra parte, è l’insegnamento della Corte costituzionale a proposito della c.d. "famiglia di fatto". La Corte ha infatti sistematicamente rigettato tutti i tentativi di estendere alla famiglia non matrimoniale i rapporti giuridici che le leggi civili prevedono per la famiglia "legittima". Anche quando si sarebbe trattato di estendere al partner economicamente più debole qualche garanzia che la legge gli assicurerebbe nell’àmbito del regime matrimoniale, la Corte ha ritenuto di non poterlo fare per una ragione precisa: il matrimonio è un istituto giuridico che prevede, per i contraenti, un preciso sistema di obblighi e di diritti reciproci; ma siccome il matrimonio è una scelta volontaria, sarebbe illegittimo, perché lesivo della libertà individuale, estendere anche uno solo di quei rapporti a chi, per sua scelta, ha deciso di convivere, anziché contrarre matrimonio. Il matrimonio è una scelta, una scelta da cui derivano le conseguenze giuridiche previste dall’ordinamento: non si può volere il matrimonio senza quelle conseguenze, né si possono volere quelle conseguenze senza il matrimonio.
Qualcosa, come si vede, non funziona. Come può essere che una "società naturale", preesistente al diritto, sia da questo riconosciuta solo quando assume precise connotazioni formali, determinate dal diritto stesso: mentre, se la stessa identica società, proprio perché costituita nelle forme di "famiglia naturale", anziché legale, viene ad essere esclusa dall’interesse dell’ordinamento giuridico? Il problema si complica se estendiamo lo sguardo al trattamento dei figli.
Sempre la giurisprudenza della Corte costituzionale ha distinto nettamente le relazioni "orizzontali" che intercorrono trai partner da quelle "verticali" che intercorrono tra essi e gli eventuali figli. Mentre le prime, come si è detto, sono ispirate al principio della libertà delle scelte individuali, le seconde sono invece improntate dal principio diametralmente opposto. Quale sia il regime giuridico scelto dai genitori per i loro rapporti non può avere influenze per i figli, che a quella scelta certo non hanno preso parte. Per cui, i doveri dei genitori nei confronti dei figli non cambiano in ragione della disciplina giuridica dei loro rapporti: che siano o meno sposati è una questione per loro "trasparente".
Così stando le cose, ne dobbiamo ricavare una conclusione precisa: il matrimonio è un atto volontario che non serve a costituire la "società naturale", ma a scegliere un determinato regime giuridico; mentre la "società naturale", anche se non fondata sul matrimonio, ha comunque importanti riflessi giuridici quando c’è di mezzo la filiazione, che è indubbiamente una delle conseguenze più "naturali" (e però non sempre volontaria) di quella "società". E allora?

5. "Natura" e libertà di scelta
Allora le contraddizioni logiche e pratiche non sono finite. Partiamo dal punto appena affrontato e poniamoci un problema oggi assai attuale: sino a che punto è legittimo, alla luce dei princìpi fissati dalla giurisprudenza costituzionale, escludere la famiglia omosessuale dal riconoscimento giuridico? Se l’assunzione dei diritti e dei doveri reciproci connaturati indissolubilmente ed esclusivamente all’istituto del matrimonio è un fatto di libera scelta, perché da questa scelta sono esclusi i partner omosessuali?
L’interrogativo si fa tanto più grave quanto più insistiamo sull’attributo della "naturalità" della famiglia, come bisogno radicato nella realizzazione della propria personalità. L’omosessualità non è una scelta (qualcuno sostiene anzi che sia una malattia!), ma è qualcosa che deriva dalla situazione "naturale" della persona. Costruire una struttura di relazioni sociali adeguata alla propria "natura" è una componente essenziale dell’affermazione della propria personalità. In una sua storica sentenza la Corte costituzionale, parlando del transessualismo e del mutamento anagrafico del sesso, ebbe a dire che la realizzazione della propria identità sessuale è un elemento fondamentale dell’affermazione della personalità e dell’equilibrio psico-fisico della persona, e che all’identità sessuale sono indubbiamente legate anche alcune condizioni che attengono alla socialità, cioè ad un sufficiente dispiegarsi delle relazioni sociali.
Escludere la "famiglia" omosessuale dal riconoscimento legale significa dunque negare ai suoi componenti la possibilità di godere del regime giuridico tipico della famiglia: regime giuridico che qualche pregio assiologico deve pur avere e, sotto il profilo dei diritti, indubbiamente ha in termini di obblighi di solidarietà reciproca, di garanzia economica, di privilegi nella successione ecc. Il valore assiologico, che spiega il favor costituzionale per il matrimonio, si spiega a sua volta con i vantaggi, per la realizzazione della persona umana, della stabilità del quadro delle relazioni sociali, affettive e economiche che si connette al regime giuridico della famiglia. Se questo regime è garantito solo alla famiglia matrimoniale, perché sposandosi i coniugi lo hanno liberamente scelto, come si può giustificare che esso sia negato a quelle formazioni familiari a cui è comunque preclusa questa scelta? A causa della "natura" della loro identità sessuale, certo non liberamente scelta? Significa assumere l’omosessualità come premessa di un giudizio di valore negativo sulla persona, mentre, semmai, dovrebbe essere la premessa per la ristrutturazione di alcuni tratti della nostra legislazione in nome del pari diritto di realizzare se stessi. Si potrebbe ragionare così: o il matrimonio non è uno strumento di realizzazione della propria personalità, e allora non si giustifica il regime esclusivo che gli si attribuisce; oppure lo è, ma allora è difficile giustificare che tale regime sia limitato ad un unico modello di organizzazione familiare, con la conseguenza che vi siano persone a cui, non per loro scelta volontaria, sia impedito di giovarsi di questo strumento di realizzazione di se stessi.

6. Chi è il titolare dei "diritti" della famiglia?
Ulteriore problema. Quali sono i "diritti" che la costituzione, all’art. 29, riconosce alla famiglia come "società naturale"? Non sono certo i diritti che ineriscono al regime tipico della famiglia matrimoniale, perché essi (a) riguardano esclusivamente i partner e non sono imputabili in alcun modo ad un soggetto terzo chiamato ‘famiglia’, e poi (b) essi derivano da un atto giuridico, il matrimonio, e non dalla esistenza di fatto di quella "società naturale".
Il messaggio dell’art. 29.1 Cost. è perciò letto di solito in termini di autonomia, autogoverno, sussidiarietà ecc. Va però sottolineato che si tratta di pretese, indubbiamente legittime e condivisibili, ma di tipo essenzialmente "negativo", che si basano cioè su una richiesta di non-intromissione da parte dello Stato, come pure da parte dei privati. Alla famiglia si riconosce una libertà negativa fornita di Drittwirkung, cioè con effetti erga omnes, cui corrisponde un obbligo di astensione da parte di qualsiasi altro soggetto.
Ma, e qui sta il problema, questa libertà è riconosciuta alla "famiglia", come soggetto collettivo, o ai suoi membri? È la risposta a questa domanda che rivela la contraddizione pratica di coloro che più si manifestano propensi alla valorizzazione della famiglia come formazione sociale, perché sono per lo più gli stessi che di continuo ripropongono interventi legislativi a tutela di posizioni individuali interne al nucleo familiare e contrapposte alla pretesa di autogoverno dello stesso. Da un lato quindi abbiamo l’affermazione ideologica, di principio, di un modello determinato di organizzazione sociale ispirata ai valori tradizionali, alla quale si vuol vedere riconosciuta una posizione di precedenza rispetto allo Stato e di autonomia nei suoi confronti; dall’altro, si nega nei fatti l’impermeabilità di questa organizzazione e si chiede invece che sia lo Stato a regolare i rapporti interni ad essa, contrapponendo alla libera determinazione dei membri della "società naturale" un complesso e pervasivo fascio di regole attinenti ai rapporti sessuali trai partner (per esempio, per quanto riguarda la violenza sessuale tra coniugi), ai rapporti tra genitori e figli (per esempio, per quanto riguarda le capacità educative), alla stessa procreazione (per esempio, per quanto riguarda la fecondazione assistita). Si arriva persino, come è proprio il caso della fecondazione assistita, ad inventare una sorta di embrionale soggettività giuridica non solo del concepito, ma degli stessi gameti, per contrapporla al diritto di autodeterminazione da parte dei partner. E allora, quali sono i diritti connaturati alla famiglia che lo Stato deve limitarsi a riconoscere?

7. La famiglia, tra diritto premiale e morale imposta
Come si vede i punti interrogativi restano e si moltiplicano man mano si affonda l’analisi. È l’inevitabile conseguenza di un sovraccarico di significati ideologici che si accentrano su una realtà che non ha corpo giuridico, pur avendo una grande evidenza sociale. La legislazione, per altro, è farcita di norme che si riferiscono alla famiglia, e persino di definizioni di ‘famiglia’: ma questa è la prova migliore che la famiglia non ha una sua definizione giuridica propria, ‘naturale’. Vi sono leggi che definiscono la famiglia per il calcolo del reddito familiare ai fini dell’accesso ai servizi pubblici, leggi che la definiscono ai fini dell’assegnazione di alloggi di edilizia pubblica o per particolari regimi fiscali, ecc.
Come si vede, il bisogno di definire legislativamente la ‘famiglia’ è sempre connesso ad interventi legislativi di tipo "positivo", "premiale". È nel momento in cui il legislatore intende promuovere la famiglia attraverso sconti fiscali, contributi o agevolazioni creditizie che diviene indispensabile definire le condizioni di accesso alla provvidenza (e quanto capita, per esempio, su un versante del tutto diverso, ma certo non meno delicato: quello delle confessioni religiose). Ma non sono mai definizioni "oggettive": anzi, assai spesso da esse traspare il sovraccarico ideologico.
Vi sono così enti locali che regolano l’accesso all’edilizia pubblica ammettendo ad essa qualsiasi tipo di nucleo familiare, e Regioni, come la Lombardia, che limitano l’accesso alle sole coppie unite in regolare matrimonio: sono scelte politiche legittime, su cui è bene che gli elettori siano informati e riflettano. Ma non sono scelte politiche interamente libere, perché trovano un limite e un controllo. Il limite è quello dei princìpi costituzionali, il controllo è il sindacato della Corte costituzionale, e in particolare quello che passa come giudizio di ragionevolezza. Infatti le classificazioni e le selezioni che traccia il legislatore hanno tutte da superare l’esame svolto sotto il profilo del principio di eguaglianza e della tutela dei diritti fondamentali. Non sarebbe affatto legittimo, per esempio, e neppure la Lombardia ci prova infatti, escludere le famiglie "anomale" dal regime di sostegno per i figli o per gli handicappati: l’obbligo di assistenza che grava sui genitori e sugli altri membri del nucleo familiare non può essere differenziato in ragione del regime giuridico della famiglia, e di conseguenza sarebbe illegittimamente discriminatoria qualsiasi differenziazione di trattamento che il legislatore introducesse.
Forse per l’assegnazione di sussidi finanziari per l’acquisto della prima casa il rigore del giudizio di ragionevolezza si allenta. L’acquisto dell’abitazione non è l’unico modo di provvedere all’abitazione, l’aiuto regionale non è l’unico sostegno finanziario ecc.: è probabile che la sensibilità comune – che poi non è molto diversa da quella della Corte costituzionale – non reagisca con altrettanta perplessità. Ma se la questione noi la guardassimo dal punto di vista dei figli, del loro "diritto" ad avere una abitazione decente – quello stesso diritto che vale, per esempio, per l’assegnazione dell’alloggio familiare anche in caso di rottura della convivenza di fatto – la reazione resterebbe ancora così tiepida? È giustificabile che un diritto che la Corte ha più volte definito come appartenente al nucleo dei "diritti inviolabili" di cui all’art. 2 Cost., sia assicurato alle persone in modo diverso a seconda del regime giuridico che esse hanno scelto (quando lo abbiano scelto, e non sia loro imposto dal legislatore a causa della loro "natura") per formare il nucleo familiare?
Spesso la giustificazione di queste discriminazioni è stata tratta da un motivo molto banale, la necessità di fissare una data certa alla formazione del nucleo familiare, per evitare che si presentino allo sportello famiglie "di comodo" (la stessa Corte costituzionale ha impiegato in alcuni casi questo argomento). Per superare il problema, le amministrazioni di alcuni comuni hanno istituito anagrafi parallele, i c.d. registri delle unioni civili: il che ha suscitato grida di scandalo e un vespaio di polemiche, perché vi si è letto il tentativo di legalizzare le famiglie di fatto e, soprattutto, le unioni omosessuali. Perché la famiglia è anche questo: la foglia di fico con cui la nostra tradizione culturale copre una cosa, la sessualità, che è criminalizzata ma da cui nessuna società può prescindere (ecco forse svelata la madre di tutte le contraddizioni!). Ciò spiega perché il codice non accenni mai alla dimensione sessuale, ma ne parli in termini metaforici (la famiglia, il matrimonio, i coniugi ecc.). E ciò spiega perché ogni volta che qualcuno non si senta parte di quella tradizione culturale e chieda di discutere della "tenuta" della metafora, ciò susciti immediate reazioni fobiche di chi, fiero del suo modello culturale, resta pur sempre convinto che la regole morali non vadano seguite da chi le condivide ma imposte anche agli altri e che la conversione viaggi sulla punta della spada. Tradizioni culturali, ancora.


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