Pubblichiamo in questa pagina il diario di bordo di Sandro Mattioli, responsabile Salute di Arcigay Il Cassero e partecipante alla Conferenza nazionale ICAR 2009, prima conferenza italiana su HIV/AIDS e retrovirus.
1° giorno – Domenica 24 maggio 2009
24 maggio ’09, oggi si apre a Milano la prima conferenza italiana su AIDS e retrovirus (ICAR), ospitata nella bella cornice del Teatro Dal Verme e promossa dalla S.I.M.I.T. (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali), con il sostegno di numerosi istituti ed enti sanitari (Istituto Nazionale per le Malattie Infettive, Istituto superiore di Sanità, ecc.), nonché da alcune fra le maggiori associazioni nazionali di lotta contro l’AIDS: LILA, Anlaids, Nadir e Arcigay.
Per la nostra associazione, oltre a chi scrive, sono presenti Paolo Patané, responsabile nazionale Salute ed un battaglione di volontari del CIG di Milano che hanno “montato la guardia” allo stand che l’Associazione ha ottenuto di allestire all’interno della conferenza.
La conferenza verrà aperta ufficialmente oggi pomeriggio, ma stamattina si tengono, come si conviene alle conferenze mediche serie, ben tre corsi precongressuali:
1) Immunologia – The challenge of immune hyperactivation in HIV/AIDS: from natural history to therapeutical approaches.
2) Virologia – HIV viral minorities: clinical significance and impact.
3) Clinica – L’osteoporosi nell’infezione da HIV.
Che il virus dell’immunodeficienza umana svolga la sua malefica azione anche nei confronti delle ossa, è cosa poco nota per cui ho deciso di seguire questo corso pre-congressuale. Senza contare che è l’unico che vanta la presenza di un relatore del Policlinico S. Orsola di Bologna (dott. Borderi) e uno del Policlinico di Modena (dott. Guaraldi), entrambi infettivologi con una certa esperienza clinica rispetto all’osteoporosi nell’infezione da HIV.
Completano le relazioni il dottor Gatti e la dottoressa Mignogna entrambi ortopedici.
Il corso inizia, nel gelo generale, con una particolarità: viene consegnato a tutti entrando un telecomando. Immediatamente comprendiamo che serve per rispondere alle domande che ci verranno poste di li a poco dalla coordinatrice del seminario per capire quanto ne sappiamo di ortopedia.
Ammetto che il tasto nr. 5 (non so) mi salva in parecchie delle 14 domande, ma scopro, con una certa sorpresa, che non sono il solo ad abusare del nr. 5, anzi gli altri, che sono tutti infettivologi, non azzeccano parecchie risposte. Beh, consolante!
Superata l’imbarazzante situazione, riprende il normale trend del corso di formazione e i due esperti ortopedici, ma non infettivologi, aprono le danze. Ci spiegano subito che l’osteoporosi è una patologia scheletrica caratterizzata dalla compromissione della resistenza ossea con conseguente aumento della fragilità delle ossa e relativo rischio di fratture, come colpisca prevalentemente le persone anziane o comunque sopra i 50 anni, soprattutto donne in età post menopausale. Ci mostrano gli esami necessari per la diagnostica clinica, come lavora il femore, come invece le vertebre, ecc.
Un lungo elenco di dati, metodiche, statistiche, ricerche, studi, farmaci, ecc. tutto incentrato sulle possibilità di prolungare la vita delle persone anziane o delle donne dai 50 anni in su.
Poi è la volta degli infettivologi che si interessano di ossa. Il bolognese Borderi, che fra i primi nel 2001, si è interessato del problema dell’osteoporosi nelle persone sieropositive, inizia la sua relazione con una serie di slide relative a studi che dimostrano come l’incidenza dell’osteoporosi fra le persone con HIV sia molto elevata e, per giunta, con un livello di abbassamento del calcio delle ossa maggiore rispetto alle persone non sieropositive. Altre slide richiamano studi secondo i quali i farmaci ARV (Anti RetroVirali) aumenterebbero il rischio di osteoporosi, sembra una barzelletta pensare che si chiamano backbone.
Ma non è tutto perché anche HIV, in quanto tale, agisce per conto suo, sia pur lentamente, nella distruzione delle ossa. E ancora, alcuni problemi renali hanno il loro peso nella patologia così come la cronica, pare, povertà di vitamina D nei soggetti sieropositivi che sicuramente non aiuta (di sicuro è la prima cosa che controllerò tornando a casa).
Insomma, una slide dopo l’altra il problema si complica sempre di più e a peggiorare ulteriormente la situazione ci pensa l’altro infettivologo emiliano, Guaraldi.
Poco prima infatti, gli ortopedici ci avevano detto che i fattori di rischio generico sono il fumo, la magrezza eccessiva (feed the bears!), essere donne, per via dell’elevata incidenza.
Guaraldi ci mostra uno studio condotto su oltre 1500 pazienti con HIV del Policlinico di Modena la gran parte con problemi ossei ma quasi tutti maschi.
Come se non bastasse, i pazienti con HIV e osteoporosi sono mediamente molto più giovani delle “vecchiette” che, per usare le sue parole, vede l’ortopedico, in compenso hanno valori ossei solitamente peggiori. Fra gli altri fattori di rischio il medico parla di ipogonadismo (ossia? Pisello piccolo? Oddio! Ho l’osteoporosi… ah no… scarsa produzione di testosterone, sono salvo).
Hey, ma… nient’altro? Mentre sto pensando di uscire da quella gabbia di matti emuli del dott. House, compare improvvisa una luce in fondo al tunnel: ci sono delle terapie che si possono tentare con buone possibilità di successo. Alcune semplici come l’assunzione di “vagonate” di vitamina D, altre un po’ meno come l’assunzione di farmaci già antipatici dal nome, alendronato, da prendere in pastiglie una volta alla settimana ma a digiuno e restando in stazione eretta per un’ora (almeno).
Ancora pillole? Ma i sieropositivi non ne prendono già abbastanza? Non riesco neppure a mettere il punto interrogativo alla domanda che il dott. Guaraldi chiede all’esperto: “tu dai un farmaco una volta alla settimana alle vecchiette di 85 anni, ma quelle dopo un po’ muoiono. Ha senso dare lo stesso farmaco per almeno 40 anni ai pazienti sieropositivi?”.
Aggiungo io: la posologia di questi farmaci è un po’ particolare, potrebbe essere un problema l’aderenza terapeutica nel lungo periodo e forse incidere anche sull’aderenza alla ARV. Le coordinatrici si guardano e complottano fra loro qualcosa, stupite che un “medico no” osi parlare. Mi sembra di essere il fratello babbano di Potter, però i medici rispondono che non risultano problemi di aderenza se non nei primi mesi quando si deve prende l’abitudine al nuovo regime.
Ricominciano con il giochino del televoto finale per vedere cosa abbiamo capito…. Mi defilo con eleganza.
Al piano di sopra mi aspetta infatti Paolo Patané. Dobbiamo fare quattro chiacchiere (top secret) con le aziende farmaceutiche presenti in forze alla conferenza.
Si fanno presto le 17 ed inizia il programma ufficiale della conferenza nel salone principale del teatro.
La cerimonia inaugurale è sobria e si svolge alla presenza dei massimi esponenti della infettivologia italiana, quelli che quando passano in ospedale di solito hanno un camice immacolato ed uno stuolo di persone ossequiose al seguito. Sono proprio loro a dare il via ai lavori e a presentare la conferenza articolata nelle varie sessioni di virologia, immunologia, ecc., simposi, letture, poster presentations, ecc. Più di 600 gli iscritti, oltre il 60% medici (2 % le associazioni di pazienti!).
Dopo i rituali inaugurali, è il dott. Rezza dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che apre le danze con un intervento abbastanza sconcertante. Ha le slide in inglese ma non cambia il fatto che all’ISS usano ancora termini dell’altro secolo. Trasmissione per “contatto eterosessuale” e “trasmissione omosessuale” sono le due prime che tornano in mente. Io e la dottoressa Re del S. Orsola, che è seduta accanto a me, ci tocchiamo immediatamente i rispettivi indici chiedendoci: sarà un contatto etero o omosessuale? Continua con alcune slide, in qualche caso i dati sono vecchi anche di sei anni (…andiamo bene!), e insiste con la storia che ormai sono gli eterosessuali la maggioranza a rischio. Neppure il tempo di dire questo, passa alla slide successiva dove si dice che sono i maschi gay la maggioranza delle persone con HIV scoperto con diagnosi tardiva ossia in AIDS o quasi (ma non ti dice niente questo?). Ah si qualcosa gli dice, si dice stupito. E’ un dato inatteso perché nei primi anni dell’epidemia le associazioni hanno fatto molta informazione sulla prevenzione. Sicuramente ora, commenta l’esponente dell’ISS, con il ricambio generazionale si è persa parte della memoria… (no comment). Il dott. Rezza annuncia anche la nascita del sistema nazionale di monitoraggio dei casi di sieropositività. È stata superata l’iniziale avversità delle associazioni, dice il medico, che ora supportano fattivamente il progetto (quello che non dice è che le associazioni erano contrarie alle proposte del tutto non in linea con la necessaria privacy fino ad oggi avanzate dall’ISS, che la privacy è ancora necessaria a motivo della discriminazione subita dalle persone sieropositive contro la quale l’Istituto non ha mai fatto nulla, così come non ha mai fatto nessuna campagna mirata al sostegno dell’uso o della diffusione del preservativo, per non parlare delle campagne mirate alla popolazione omosessuale: mai fatte).
Andiamo avanti.
La sessione è moderata da tre esponenti delle associazioni: Fiore Crespi, presidente di Anlaids, che fa un bellissimo intervento incentrato sulla prevenzione; il nostro Paolo Patané che, con il suo solito modo di fare molto diplomatico, lascia tuttavia ben intendere che l’ISS ha già perso fin troppo tempo dietro a stime sostanzialmente sbagliate; Simone Marcotullio, vicepresidente di Nadir Onlus, che quasi distrattamente fa presente che ormai è sensazione comune a tantissimi infettivologi, di centri clinici anche di importanza nazionale, che una parte importante delle nuove infezioni da HIV riguarda giovani omosessuali (solo l’ISS non se n’è accorto?).
Concludo con la presentazione del professor Montagner. Si proprio lui, il premio Nobel per la medicina, lo scienziato che ha isolato l’HIV 1 e l’HIV 2. Un omino dall’aria semplice ed innocua, ma che con grande saggezza e bravura spiega cosa ha scoperto 25 anni fa, come funziona l’HIV, perché i vaccini hanno fallito fin’ora, dove orientare la ricerca nel futuro prossimo per eradicare il virus dall’organismo umano. Ringraziato con un leggero inchino e si siede in platea accompagnato, come è ovvio, da un lungo applauso. Non nascondo che ascoltare una lezione del premio Nobel Montagner è stato molto emozionante.
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2° giorno: lunedì 25 maggio 2009
La mattina incomincia con un simposio sulla virologia. Una serie di interventi la cui complessità fa immediatamente capire perché questo virus è così difficile da combattere, per non parlare della possibilità di scoprire un vaccino.
Due ore abbondanti di studi sulle mutazioni virali, le resistenze ai farmaci ARV e le implicazioni che hanno nei trattamenti anti retrovirali, il tutto accompagnato da grafici e studi complessissimi sui quali non mi soffermo, poi dite che non vi voglio bene.
Due parole però voglio spenderle per lo studio molto interessante, anche se molto complesso, che presenta il dottor Giacca di Trieste che parlando di resistenza cellulare all’HIV e di terapia genica apre uno spiraglio di speranza, per esempio rispetto alla pesantezza dei farmaci ARV e agli effetti collaterali di lungo periodo.
Dopo due ore, alle 11, il cervello inizia a fumare e opto per qualcosa di meno complicato, si fa per dire, come la sessione sulle terapie anti retrovirali.
La sessione iniziata con una carrellata sull’efficacia dei farmaci ARV, (mi verrebbe da dire tanto per perdere un po’ di tempo: visto che di gente ne muore molta meno non è ovvio che sono ancora necessari ed efficaci?), prosegue con la presentazioni di alcuni studi, i primi, su alcuni farmaci di recente introduzione che impediscono la fusione o l’ingresso di HIV nella cellula parassitata, o agiscono sulla proteina integrase. Farmaci dai soliti nomi complicati, Raltegravir, Maraviroc, ecc. che per lo più attualmente vengono utilizzati come terapie di salvataggio per quei pazienti che hanno fallito la terapia primaria a base di inibitori della trascrittasi inversa e della proteasi.
In particolare lo studio presentato dalla dottoressa Nozza di Milano, durato 48 settimane, è stato molto apprezzato per i bei risultati ottenuti in pazienti con un basso livello di CD4 balzato da 284 di media a 549 di media nel giro, appunto, di 48 settimane, di terapia ma già alle 24 settimane la progressione era a dir poco interessante.
Al solito questi farmaci costano una fortuna, a mio modesto avviso è principalmente per questo che non vengono utilizzati in via primaria ma giustamente i medici sottolineano il fatto, altrettanto vero, che essendo farmaci nuovi non abbiamo idea di come si comportano nel lungo periodo.
La sessione pomeridiana, sempre dedicata alle terapie ARV ma con un focus sulla tossicità, si apre con una comunicazione annunciata già dalla presentazione come “molto preoccupante”.
È la relazione del dottor Guaraldi del Policlinico di Modena (sempre quello di ieri), che ci parla di Coronary Ageing in HIV Infected Patients.
Come avete intuito si parla di rischio coronarico in soggetti con HIV. Il medico presenta uno studio posto in essere su una coorte (ossia un gruppo) di sperimentazione di 400 pazienti con HIV dei quali è andato ad analizzare le aorte. In particolare quanto calcio si deposita nelle aorte delle persone sieropositive rispetto a quelle sane. Intendiamoci non è un effetto collaterale, quello del calcio che si deposita nell’arteria è un fenomeno naturale legato all’età, all’invecchiamento. Il problema è che il dott. Guaraldi sembra dirci che le aorte di oltre il 40% dei soggetti della sua coorte hanno un deposito di calcio di persona di circa 15 anni più vecchia.
Come se non bastasse a farmi venire i capelli bianchi e non ne ho da buttare via, arriva a dirci che in quel 40% l’unico fattore predittivo presente in qualsivoglia tipo di analisi è l’aumento dei CD4.
(Quindi se i CD4 sono pochi crepi di AIDS se sono troppi credi di infarto? E che cazz!!)
Chiedo immediatamente ad altri medici che mi confermano in termini scientifici (e non: “quello è suonato!”) che esistono studi molto più probanti, perché svolti per più tempo e su diverse migliaia di persone, che dimostrano che le persone sieropositive sono colpite da infarto tanto quanto le altre.
Seguono altri studi che ci raccontano che ad una percentuale importante di soggetti sieropositivi la pressione sanguigna non si abbassa durante le ore di sonno come per gli altri; un altro che spiega come con l’ecografia è possibile diagnosticare lipodistrofie che l’occhio non vede.
Mi sembra sufficiente. Decido di uscire (e di toccarmi i gioielli che non fa scienza ma non si sa mai), per partecipare all’ultimo simposio della giornata dal titolo Modelli di diffusione di HIV e strategie di controllo.
Apre le danze un intervento della dottoressa Crowley dell’WHO (World Health Organisation) che ci spiega come trattamento e prevenzione siano due lati della stessa medaglia e ce lo spiega da un punto di vista internazionale, visto dove lavora, con particolare riguardo alla situazione dei Paesi in via di sviluppo. Avevo già sentito un intervento della Crowley alla Conferenza mondiale sull’AIDS di Città del Messico la scorsa estate, se ben ricordo, e oggi, come ha fatto allora, se la prende con la dichiarazione dei ricercatori svizzeri (i quali da un piccolo studio hanno osservato che il rischio di trasmissione del HIV in una coppia etero siero-discordante è trascurabile se il/la partner sieropositivo/a è totalmente aderente alla ARV, con carica virale soppressa, un alto livello di CD4, ecc.). Principalmente a motivo del fatto che simili dichiarazioni, lasciano spazi aperti al mancato uso del preservativo.
Purtroppo per la Crowley anche a Milano come già a Città del Messico è presente la Presidente di LILA, Alessandra Cerioli, che alza la mano e chiede conto del fatto che il WHO concorda sulla circoncisione maschile nei Paesi ad elevata prevalenza di HIV, ma si rifiuta di considerare la dichiarazione svizzera (ricordo che il pene circonciso sembra che sia meno ricettivo all’infezione, ma se il HIV+ è lui hai voglia tagliare il prepuzio! E purtroppo in molti paesi ad elevata prevalenza di HIV la circoncisione coincide con la decisione unilaterale di non usare il preservativo, con buona pace del diritto della partner alla salute).
Segue la presentazione della dottoressa Suligoi dell’ISS che ci fa un quadro della situazione italiana. Non mi soffermo tanto ritengo che sia chiaro a tutti e a tutte quanto siamo messi male, ma due punti li tocco: la povera dottoressa se ne esce dicendoci che non è più tanto vero che con la fine dello scambio delle siringhe è finito anche l’HIV fra i tossicodipendenti. Infatti negli ultimi anni si regista un aumento dei casi di circa il 2,7% anche fra i TD che non fanno ormai più uso di droghe iniettive (mi scappa detto “scoperanno sti poracci?” e due dottoresse sedute davanti a me si girano ridendo).
L’altro punto è emerge consiste nel fatto che i dati a disposizione dell’ISS sono pochi e non completi perché non c’è un servizio di sorveglianza nazionale sui casi di sieropositività. Inoltre ammette che, rispetto alla “categoria a rischio” (daje!) degli omosessuali non è mai stata fatta alcuna rilevazione e nella slide che mostra appare il mitico Modidi di Arcigay come primo tentativo di rimediare ad una situazione di assoluta ignoranza (tenete conto che Modidi interviene a “sanare” una situazione dopo oltre 20 anni di epidemia), oltre al progetto Sialon di Verona che evidenziato una prevalenza fra i gay superiore al 11 % (dati da Africa). Tutto qui. L’Istituto Superiore di Sanità dell’Italia non ha idea dell’andamento epidemiologico fra gli MSM. Aggiungiamo il fatto che non fanno campagne di prevenzione adeguate, nessuna campagna contro la discriminazione, poco o niente in favore della prevenzione e poi annunciano stupiti: toh i gay si infettano!
Ovviamente non fa in tempo a mettere giù il microfono che interviene di nuovo la Cerioli di LILA la quale sottolinea che, a meno di nuovi dati che nessuno conosce, solo con lo scambio di siringhe avviene il contagio. Se quel 2.7% prima sniffa coca e poi scopa senza preservativo e si contagia andrà registrato come caso sessuale non da tossicodipendenza.
Alzo la mano numerose volte senza risultato alcuno anche perché il coordinatore finge di non conoscermi e preferisce dare la parola al nostro amico Enrico Oliari che dice pubblicamente che lui è favorevole all’auto test. La risposta che arriva dal palco non fa una piega: se scoprissi da un auto test di avere un cancro alla prostata come reagiresti?
Possiamo raccontarcela quanto vogliamo, lo so che Grillini non sarà d’accordo, ma il test auto somministrato toglie di mezzo anche quel poco di supporto emozionale che un ospedale è in grado di offrire e lascia al singolo la scelta di andare in un centro clinico e farsi curare oppure lasciarsi penzolare dal lampadario.
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3° giorno: martedì 26 maggio 2009
Oggi iniziamo subito in bellezza. Dopo il saluto del ministro Fazio, si comincia con le sfighe nella sessione dal titolo emblematico: Coinfezioni, infezioni opportunistiche e tumori.
Non starò a stressarvi più di tanto, dico solo che dal momento che oggi, grazie alla terapia ARV, le persone sieropositive vivono più a lungo e abbastanza raramente vengono colpite dai tumori opportunistici, diventa importante capire quanto incidono i tumori non aids correlati.
Ne parlano due studi italiani. In particolare uno realizzato a Milano dimostra che a fronte di un aumento dei CD4 i tumori aids correlati sono assai meno frequenti e l’aspettativa di vita è abbastanza alta anche dopo una diagnosi di tumore aids correlato. Chiaramente meglio se sia l’infezione da HIV sia l’eventuale tumore opportunistico sono stati diagnosticati dopo il 1998 ossia con l’inizio dell’era dei farmaci ARV. Segnalo che, specie fra gli MSM sieropositivi è molto alta l’incidenza del sarcoma di Kaposi, un tumore assai poco fashion che tende a rovinare il trucco. Meglio indossare il preservativo.
Diverso sembra essere in discorso per i tumori che non sono correlati o, meglio, che non definiscono una diagnosi di AIDS. Per questi tipi di tumori la terapia ARV non sortisce grandi effetti e anzi sembra che le persone sieropositive siano abbastanza esposte alle varie forme tumorali comuni.
Giustamente i relatori suggeriscono di anticipare l’età media in cui iniziare gli screening per la diagnosi precoce in soggetti sieropositivi.
Di un certo rilievo la diagnosi di cancro anale. Modestamente consiglio di farci esplorare l’ano da dei bei maschi ma anche, periodicamente da medici (se carini ancora meglio).
Lo studio successivo sposta l’attenzione sulla tubercolosi (TB), ancora presente e ultimamente molto in voga nel nostro paese, in parte senz’altro a motivo dei flussi migratori ma non solo. Lo studio, nella fattispecie, è incentrato su un test per la diagnosi di TB basato sull’interferone gamma, in ogni caso ci ricorda come le persone con HIV siano a rischio anche per quanto riguarda la tubercolosi, soprattutto fra le persone con un basso numero di CD4.
Dopo una animata discussione presso lo stand dell’Associazione con un tizio, sedicente esperto in comunicazione (spero che non ci mangi visto tutte le puttanate che diceva), in vena di far polemica e di dire male di Arcigay (perché apre le saune) arringando un giovane volontario dello stand (tizio da me mandato a spendere mentre delirava sulle trans, da lui definite “tutte appestate”, alla faccia dell’esperto di comunicazione – scoprirò di li a poco che Patané lo ha fatto sbattere fuori dall’organizzazione del congresso, per fortuna che sono io quello che si incazza ^_^), rientro nella sessione plenaria pomeridiana giusto in tempo per seguire la presentazione di un ricercatore di Brescia che portato un lavoro sull’incidenza della sifilide nelle persone con HIV.
Ho un bel da ricordarmi che la sifilide viene stimata circa 400 volte più infettiva dell’HIV, ma i dati mostrati sono impressionanti e riguardano soprattutto gay HIV+.
Quindi occhio.
Certamente il ritorno della sifilide non riguarda solo l’Italia e non solo i gay italiani, si tratta di un problema di carattere globale. Tuttavia, nella logica think globally act locally, ritengo che sia il caso di pensare e produrre campagne di informazione anche su questa subdola infezione che è molto abile nel veicolare anche HIV.
Seguono diversi studi interessanti ma tecnici, che vi risparmio. Cito solo uno studio effettuato su una coorte di donne del Burkina Faso sieropositive e incinte, che ha dimostrato che la terapia ARV non rappresenta un fattore di rischio specifico per il nascituro in particolare per quanto riguarda il peso alla nascita o eventi infausti post nascita.
So che sembra una cosa scontata ma non lo è affatto, è drammatico dover spendere dei soldi per dimostrare che la terapia anti retrovirale è essenziale in gravidanza per far nascere bambini che negativizzano quando da noi è ormai pratica pressoché comune. In Emilia Romagna, infatti, il test viene offerto ad ogni singola madre che accede al servizio sanitario pubblico, purtroppo ci sono ancora casi di mamme che rifiutano offese, ma la maggioranza lo effettua di buon grado. Se vi interessa saperlo se è alto il numero delle donne che scoprono di essere sieropositive in gravidanza, si è alto purtroppo e non solo nel Burkina Faso ma anche da noi.
NDLE è una simpatica sigla, del successivo studio, che sta per non defined leukoencephalitis, ossia c’è in giro una encefalite della cui causa i medici non hanno idea.
Lo studio presenta i dati preliminari di un grosso lavoro italiano proposto da alcuni centri clinici di Pavia e Milano. Si tratta di uno studio in fase iniziale che per ora ha portato ad osservare che l’aumento dei CD4, anche in questo caso, è essenziale per migliorare le possibilità di sopravvivenza e conclude che, stante il fatto che le persone sieropositive vivono più a lungo, è opportuno effettuare test anche su questi pazienti lungo viventi.
L’ultimo studio della sessione è relativo ad un lavoro su marcatori in grado di agevolare la diagnosi di demenza da HIV. Qualora qualcuno se lo fosse dimenticato, HIV incide anche sulle capacità cognitive e se non opportunamente trattato può portare a problemi seri. Se consideriamo che una parte importante (intorno al 50%) dei casi di HIV+ sono late tested, persone che si scoprono sieropositive in AIDS, capite bene quanto sia importante la diagnosi precoce e, di conseguenza, quanto sia importante per la nostra Associazione fare di tutto per implementare il test.
Durante la presentazione del simposio finale, il prof. Antinori dello Spallanzani di Roma fra le altre cose, si chiede se, stante la straripante potenza della terapia ARV sia ancora necessario il controllo frequente dei pazienti.
Non ho capito perché abbia fatto questa affermazione visto che decine di ricercatori hanno portato studi che dimostrano quanto sia fragile la salute delle persone con HIV.
Le danze finali partono con la relazione della dottoressa Boffito che ci spiega come la farmacologia clinica delle nuove classi di farmaci ARV possono aiutarne l’impiego; proseguono con la presentazione di Lo Caputo che ci spiega, attraverso l’analisi critica dei molteplici studi effettuati, come i nuovi farmaci possono essere impiegati in pazienti con fallimento terapeutico esteso, mentre la dottoressa Castagna del S. Raffaele ci insegna che, usati in modo ottimale, i farmaci di nuova generazione possono dare risultati ideali nei termini di crescita di CD4 e abbattimento della carica virale.
L’ultimo atto del convegno, incredibilmente introdotto da Like a Vergin di Madonna, inizia con le premiazioni ai giovani ricercatori che hanno presentato i progetti valutati come più interessanti dalla commissione scientifica della conferenza e prosegue con gli “highlight” del convegno.
Per quanto riguarda l’area tossicità e comorbidità è emerso un grosso approfondimento su 2 temi:
1) le fragilità del paziente sieropositivo pur con una ARV molto efficace, in particolare su neoplasie, osteoporosi, ecc.
2) un approfondimento diagnostico molto interessante, in particolare rispetto alle terapie antiretrovirali per esempio rispetto alle mutazioni virali.
Per l’area immunovirologica importanti gli studi sulle mutazioni; da segnalare inoltre gli studi sui marcatori virologici in alcuni particolari regimi terapeutici, in studi piccoli ma ben fatti che pongono le basi per nuovi approcci sulla scelta della terapia; ancora uno studio interessante su partner di pazienti sieropositivi: esposti ma mai infettati.
Per l’area farmacologia clinica e virologia, sono segnalati studi su aderenza e tossicità della terapia di prima linea iniziata nel 1998 e nel 2006; lo studio sul recupero immunologico realizzato mettendo a confronto due tipologie di terapia.
Per la farmaco-cinetica interessante uno studio sui livelli plasmatici di Darunavir, oltre agli studi sulle nuove classi di farmaci, sulle loro possibili combinazioni con i regimi terapeutici in uso da più tempo e sulle reali capacità dei nuovi farmaci.
Siamo alla fine.
Sale sul palco il prof. Lazzarin, patron del convegno, le cui conclusioni iniziano con il ringraziamento per il lavoro svolto dai ricercatori italiani, sottolineando nel contempo quante cose ci sono ancora da imparare e da capire. Il convegno è stato un successo e la strada è aperta per andare avanti nei prossimi anni con simili iniziative.
Lazzarin sottolinea il numero elevato di partecipanti, il numero definitivo è 750, il numero elevato di giovani ricercatori. Sottolinea inoltre che questi numeri ricordano quelli dei primi convegni sull’AIDS, quando era ancora altissima la motivazione. Oggi l’entusiasmo è tornato ed è necessario dare spazio ai ricercatori affinché diano spunti ai clinici per andare avanti nella lotta contro l’AIDS.
Ovviamente è un obbligo migliorare. Alcune ombre ci sono state secondo il professore.
La giornata iniziale è andata bene ma è mancata la discussione con le associazioni rispetto all’impatto sociale della malattia. Il prossimo ICAR dovrà tenere conto di questo non facile lavoro.
La SIMIT ha dimostrato di saper gestire la sfida di questo convegno, ma deve migliorare le sinergie con le società scientifiche che collaborano nella lotta contro l’infezione.
Il nr. degli abstract inviati in tempo reale è pari al numero degli iscritti e dimostra una volta di più l’entusiasmo dei giovani ricercatori, ma anche per loro questo è un punto di partenza per migliorare la qualità degli abstract.
Vanno ridotte le spese di organizzazione del convegno per implementare le scolarship, i premi di studio e di ricerca.
Va ottimizzato il rapporto con le company che supportano il convegno, senza avere posizioni maniacali contro le multinazionali del farmaco, ma non possono “avere l’arroganza di contaminare il convegno con le informazioni farmaceutiche mirate ai ritorni commerciali”, per usare le parole esatte del professore.
Uno dei rischi è quello di provincializzarsi, vanno istituite sessioni in lingua inglese.
Le ultime parole del professore, prima di chiudere definitivamente e mandarci tutti a casa, sono nuovamente per gli “ICAR Boys”, i giovani ricercatori che vanno aiutati a mantenere l’entusiasmo con cui hanno partecipato al convegno.
Io non sono patron di nulla ma due parole di commento le scrivo lo stesso.
Nell’insieme il risultato di questa prima conferenza italiana sull’AIDS è stata molto soddisfacente. Tranne qualche piccolo problema di carattere organizzativo del tutto superabile con un po’ di pazienza, la conferenza si svolta con estrema tranquillità.
Sul piano dei contenuti è stata un’ottima conferenza. Sono stati presentati studi interessanti che aprono prospettive anche importanti sia per i medici infettivologi sia, in qualche caso, per la ricerca. È importante vedere che in Italia, nonostante i noti problemi economici, c’è ancora una forte volontà di fare buona ricerca ed è positivo constatare che la ricerca italiana è in grado di fare la sua parte. Anche sul piano dei rapporti trasversali, penso che possiamo ritenerci soddisfatti. Ovviamente nessuno regala niente e le associazioni devono fare la loro parte continuando a lavorare unite come hanno fatto in occasione di questa conferenza e come fanno, a dire il vero, già da tempo.
Ritengo infatti che sia essenziale la presenza in queste conferenze delle associazioni di lotta contro l’AIDS e di pazienti così che possano svolgere la necessaria opera di informazione direttamente rivolta al target di riferimento.
È importante che il paziente sieropositivo sia informato e possa essere nelle condizioni di concordare con l’infettivologo ovviamente, la strada migliore per combattere l’HIV.
Sandro Mattioli
Responsabile Salute
Arcigay Il Cassero