Non è un paese per gay

  

Dai cuochi agli avvocati, dagli operai agli ingegneri, si moltiplicano i casi di omosessuali discriminati sul lavoro. Un mondo di uomini e donne obbligato a nascondere i propri orientamenti sessuali o ritrovarsi nel mirino. Abbiamo raccolto le loro storie.

Fino a ieri Giovanni, 32 anni, faceva il cameriere in una sala Bingo romana. Al titolare non aveva detto di essere gay, ma non l’aveva neppure nascosto: «Semplicemente sono stato me stesso», spiega. Tanto è bastato a inquadrarlo nel mirino della discriminazione. «Quando il padrone ha capito che ero omosessuale ha iniziato a tormentarmi. Faceva battutine, mi trattava improvvisamente male. Mi ha anche accusato di avere rubato un barattolo di Nutella e un pacchetto di biscotti». Stupidaggini per umiliarlo, per metterlo in difficoltà. «Ma peggio è andata quando mi sono ribellato: "Come ti permetti di aprire bocca, brutto finocchio di merda!", mi ha risposto. Dopodiché, affrontandomi nelle cucine, mi ha minacciato: "Prova a parlare con qualcuno di questa storia, e ti faccio fare una brutta fine!"». Il tutto mentre la moglie, scuotendo la testa, commentava: «Ce ringraziassero, ‘sti froci, che je diamo lavoro in mezzo alla crisi…».

Li chiamano i sommersi. Gli sconosciuti. Gli invisibili. In gergo omo, "i velati". L’incalcolabile esercito di gay, lesbiche e transessuali che tutti i giorni subiscono sul posto di lavoro un’intolleranza tanto gretta quanto diffusa. Niente a che vedere con l’attenzione nazionale che, nei giorni scorsi, ha circondato le due bombe carta scagliate contro un locale di via San Giovanni in Laterano, ritrovo gay capitolino a ridosso del Colosseo. Per l’occasione, la politica ha parlato con sincronismo bipartisan di «emergenza civile» (Pierluigi Bersani, Pd) e «intollerabile escalation intimidatoria » (Margherita Boniver, Pdl).

In coro, dalla bandiera antiomofoba Vladimir Luxuria al sindaco Gianni Alemanno, è stato condannato l’ennesimo atto di violenza contro la comunità omosessuale. E mentre nel Paese imperversava l’affair Boffo-il Giornale, fra accuse di molestie e tensioni tra governo e Vaticano, televisioni e giornali hanno rievocato l’incubo di Dino, accoltellato a fine agosto da Alessandro Sardelli (detto Svastichella) mentre baciava un ragazzo al Gay Village dell’Eur.
Tutti hanno sottolineato la gravità dell’incendio provocato, negli stessi giorni, alla discoteca Qube, sede delle serate gay di Muccassassina.

E sono tornati alla mente altri recenti esempi di aggressione omofoba: dalle botte inflitte a una coppia gay riminese (cantante e giornalista, rispettivamente cinque e tre giorni di prognosi), ai pugni del branco contro due turisti omosex a Napoli.

«La politica si muove esclusivamente quando si arriva all’estremo, alla violenza spettacolare», ammette la deputata Paola Concia (Pd), punto di riferimento dell’universo lesbico: «Nel frattempo la maggioranza degli omosessuali vive nel disagio, patisce quotidianamente ingiustizie e nessuno la ascolta. Risultato: in pochi anni si è passati dalla ventilata realizzazione dei Pacs al più oscuro Medioevo». La riprova è tutta in un dato: in Italia non esiste alcuna indagine sulle discriminazioni di gay, lesbiche e transessuali. Nessuna istituzione se ne occupa.
E nessun partito la reclama.

«Da qui parte il clima di impunità con cui i datori di lavoro trattano i dipendenti omosessuali», dice Luca Trentini, responsabile Diritti umani dell’Arcigay. Ogni anno compila un dettagliato "Report dei principali atti di violenza omofoba" nel nostro Paese. E la sintesi è sconsolante: «In questa metà di 2009, ci sono stati otto omicidi, 52 aggressioni, sette estorsioni a sfondo sessuale; per non parlare degli infiniti casi di bullismo e vandalismo contro sedi e locali gay». Uno scenario propedeutico a quello che, giorno dopo giorno, avviene silenziosamente nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali, nelle scuole: sia tra gli alunni che tra gli insegnanti. Ovunque insomma, sport compreso. Senza distinzioni sociali e geografiche.

«Da gennaio a giugno, abbiamo ricevuto una media di 2 mila telefonate al mese, ed è in progressivo aumento il numero di chi richiede consulenza legale per questioni professionali», dice Fabrizio Marrazzo, responsabile dell’Arcigay romana e promotore della Gay help line 800 713 713. «In particolare, il 50 per cento patisce episodi di mobbing o è discriminato, un altro 26 segnala abusi mentre il 20 per cento ritiene che siano stati violati i propri diritti civili».

Certo, va precisato, c’è discriminazione e discriminazione. Non sempre il mondo omosessuale viene calpestato a sberle e parolacce: c’è anche una strada più strisciante, ma non per questo meno offensiva. Caso esemplare quello di Stefano, 36 anni, avvocato rampante in uno studio internazionale. A lui nessuno ha riservato violenze fisiche, ma un palese disprezzo. «Dovevo partecipare a un incontro con il rappresentante di uno Stato straniero», dice, «senonché all’ultimo momento mi è stata fatta una raccomandazione: "Ti prego, tieni le mani in tasca perché questi sono islamici, e se gesticoli come fai di solito… insomma, hai capito… potremmo perdere il cliente" ». A quel punto, per scrupolo, Stefano ha scelto di superare la provocazione e partecipare comunque al meeting.

Ma non è finita. Mesi dopo, quando ha deciso di cambiare lavoro, ha saputo del dialogo tra il numero uno dello studio e un dirigente con cui aveva ottimi rapporti: «Hai visto cosa combina il tuo pupillo?», ha detto sarcastico il titolare: «Ti molla senza dirti niente… Non so chi di voi due l’abbia più preso nel culo!». Oggi Stefano ha un solo rimorso: non avere trovato il coraggio di denunciare l’accaduto. «Mi sono detto: la migliore risposta a quella gente, è il mio successo professionale ». Ma il dubbio resta: eccesso di egoismo e veniale tradimento della causa gay, o lecita autotutela del ruolo sociale?

«Un fatto è certo: le cose vanno ancora peggio, molto peggio, quando a subire la discriminazione omosessuale non è un professionista di grido, ma un lavoratore comune», dice l’avvocato Antonio Rotelli, presidente della rete Lenford, impegnata a tutto campo nella difesa gay. Il vincolo del precariato, insomma, «è il presupposto ideale per alimentare ricatti e panico da disoccupazione. Per non parlare dell’ambigua situazione legislativa». Attualmente, non esiste in Italia una normativa specifica contro le violenze sugli omosessuali.

La legge Mancino (1993) ha introdotto la procedura d’ufficio e le aggravanti della pena per reati razziali, etnici e religiosi, ma non considera l’orientamento sessuale. «In pratica », fa notare Rotelli, «un gay deve per forza sporgere denuncia, e quindi rischiare esponendosi pubblicamente».

Non meglio, poi, va sull’altro fronte: quello del mobbing e delle discriminazioni
. L’Unione europea ha imposto al governo Berlusconi di adeguare la normativa, secondo la quale tocca al datore di lavoro discolparsi dall’accusa di comportamento scorretto. Ma la risposta, anche in questo caso, è stata elusiva: ancora oggi vengono richiesti a chi denuncia indizi «gravi, precisi e concordanti», senza introdurre una totale inversione dell’onere della prova (come chiesto dalla direttiva Ue). Per giunta, la raccolta delle prove passa spesso dalla testimonianza dei colleghi, gli stessi che hanno discriminato o che sono ricattabili.

«Dopodiché», dice Alberto Baliello, responsabile legale dell’Arcigay, «spetta al giudice ritenere sufficienti gli indizi, e non al datore di lavoro dimostrarsi innocente». Logico che, in questo contesto scivoloso, a prevalere siano le ingiustizie e i pregiudizi.

Ne sa qualcosa la ragazza che, coperta da anonimato, ha raccontato sul sito di Gay.tv la sua esperienza da collaboratrice in un villaggio turistico pugliese: «Non ho mai detto di essere gay», scrive, «perché non credo sia il caso di urlare qualcosa che si ritiene naturale. Ma sono stata ripresa e allontanata proprio per le voci che giravano sui miei gusti sessuali. Il tutto, dovuto al fatto di non essere stata con i ragazzi che lavoravano lì, e di avere confidato l’emozione provata in passato per alcune ragazze ». Il che è folle, ripetono le associazioni omosessuali, e anche grottesco nell’Italia del 2009. «Ma non deve stupire», dice Cristina Gramolini, vicepresidente di Arcilesbica: «Un tempo noi omosessuali eravamo considerati ridicoli, macchiette da sbertucciare.

Poi è cresciuta la consapevolezza, abbiamo iniziato a essere visti come pericolosi ed è scattata la reazione». «In particolare», spiega il leader storico del movimento gay italiano, Franco Grillini, «il clima è cambiato nel 2000, dopo il successo del World Pride di Roma. Da quel momento, da quella dimostrazione di forza, l’omofobia è diventata terreno di scontro politico, oltre che di tensione religiosa e sociale. E le conseguenze si vedono». A pagare il clima pesante, negli anni a seguire, sono stati i soggetti più fragili. Come la transessuale Marina, da un decennio operaia in un’azienda di componenti elettronici. «Causa crisi, la fabbrica ha avviato un piano di ristrutturazione modificando i turni di lavoro, e togliendo a Marina la possibilità di lavorare la notte per guadagnare di più», dice Salvatore Marra, ufficio Nuovi diritti Lazio della Cgil. Una decisione con doppia beffa: da una parte il minore guadagno per la transessuale, dall’altra la furibonda reazione dei colleghi di reparto: «L’hai voluto tu! Hai incastrato per il turno serale le madri di famiglia!», le hanno urlato: «Il perché lo sappiamo: preferisci lavorare di giorno per andare a
battere la notte… ».

«Involuzione dei diritti civili», la definisce Sergio Rovasio, segretario dell’associazione radicale Certi diritti. Un incrocio di «ostruzionismo ideologico» e «machismo storico ». Quello sperimentato, in continuazione e sulla propria pelle, da migliaia di omosessuali italiani.

Come Fabio, 20 anni, primo al corso dell’Accademia militare, espulso per avere inserito il suo profilo su un sito gay. Come Antonello, 45 anni, catanese, spostato dalla cassa di un supermercato «per non imbarazzare i clienti». O come Giacomo, 26 anni, infermiere del Nordest, messo in croce dai colleghi per uno scherzoso balletto finito su YouTube.

«Casi frequenti, che in questo immobilismo doloso lo diventeranno ancora di più», dice Sergio Lo Giudice, presidente della Commissione per i diritti degli omosessuali al ministero delle Pari opportunità ». Il riferimento, in particolare, è ai 300 mila euro stanziati dal governo Prodi per la prima indagine Istat sulle discriminazioni gay, bloccati dal ministro Mara Carfagna.

«Svanita anche questa possibilità di chiarezza, rimane impossibile fotografare quanto vasta sia la piaga dell’intolleranza omofoba», dice Claudio Di Berardino, segretario generale della Cgil in Lazio: «Così si aprono le porte al più pericoloso dei fenomeni: l’autoesclusione dal lavoro, a tutti i livelli sociali».

«Un errore, indubbiamente, ma anche una scelta obbligata», racconta Mauro, 53 anni, meccanico in un’officina abruzzese. Per 25 anni, spiega, è stato felicemente sposato. Poi la moglie è morta ed è emersa la sua omosessualità. «Per un po’ non l’ho confidata a nessuno, quasi non lo dicevo a me stesso. Finché mi sono sfogato con un collega, amico da una vita, e ho subito la sua pazzesca aggressione. Prima mi ha dato del pervertito, dello schifoso, di quello che era sotto shock per la scomparsa della moglie. Poi mi ha spinto in un angolo e, puntandomi un cacciavite, ha urlato: "Ti scanno! Ti ammazzo!"». Il titolare, informato dei fatti, ha cercato di minimizzare. E fino a questo momento, malgrado un esposto presentato ai carabinieri, niente si è mosso: a parte Mauro, trasferito in un’altra filiale dell’officina.

«Un episodio coerente con gli ultimi dati Eurispes», dicono le associazioni gay: «Appena il 52,5 per cento degli italiani considera l’omosessualità uguale all’amore etero, mentre il 33,3 per cento dichiara di tollerarla solo se non ostentata e un italiano su dieci (9,3 per cento) la definisce immorale». Un quadro che trova conferma già sui banchi di scuola, dove la discriminazione colpisce tanto i docenti quanto gli alunni.

Clamorosa, anche se passata sotto silenzio in Veneto, è la recente disavventura di un insegnante gay in una scuola media inferiore, liquidato dal preside con le seguenti parole: «Io non ho problemi, ma in questa città e in questo istituto non c’è spazio per quelli come lei… La devo trasferire, me lo chiedono i genitori degli studenti». Ancora più pesante, è la tragedia a Benevento di V., 17 anni, scoperta nei bagni della scuola mentre baciava una compagna, segnalata come lesbica ai genitori, picchiata a sangue dal padre e dallo zio, e costretta a trasferirsi in un’altra regione.

«La parola chiave, come sempre, è pregiudizio », dice Fabrizio Marrazzo dell’Arcigay: «Ancora di più, quando l’omosessualità entra in un ambiente maschilista come lo sport agonistico». Da anni, Marrazzo raccoglie testimonianze riguardo a «calciatori, allenatori, massaggiatori e arbitri gay, dalla massima serie alle categorie dilettantistiche »: tutti costretti a vivere in clandestinità i propri amori. «Chi sgarra deve pagare la legge dello spogliatoio», testimonia un atleta professionista dietro promessa di anonimato. «Non solo insulti e minacce. Nel mio caso, anche vestiti sparsi a terra e imbrattati di urina». Con una squallida scritta sull’armadietto: «Qui donnine non ne vogliamo ».


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