Alla cortese attenzione de “L’Espresso”.
Gentile Direttore,
abbiamo letto con molto interesse l’articolo, “La vittoria costa” (qui di seguito) a firma Roberto Satolli che rivolge domande precise, e insieme scivolose, sulla lotta all’hiv-aids.
Tra queste, ad esempio, “è lecito indurre i sieropositivi che stanno bene ad assumere pillole potenzialmente tossiche per il bene della salute pubblica?”, o, ancora, “chi è in grado di pagare il conto per screening e trattamento di massa nei Paesi più poveri, oltretutto con la crisi che incombe?”.
Queste domande complesse ci paiono del tutto aleatorie in Italia, paese dove la discriminazione delle persone sieropositive è elevatissima, la circolazione di informazioni nulla e accompagnata da pessime campagne istituzionali.
Ora, da una parte, ci sono, ci si perdoni la semplificazione, clinici e media (!) affascinati dal trattamento precoce della sieropositività, ma gli studi sono ancora in corso e non hanno offerto ancora risultati conclusivi.
Dall’altra ci sono le persone sieropositive, delle quali sempre si dimentica che vivono in questa società, con annessi e connessi come il forte timore, quando non terrore, nei confronti delle terapie antiretrovirali, spesso per via degli effetti collaterali, come la lipodistrofia/atrofia, che potrebbe rendere visibile lo stato sierologico.
Non ci pare poi che abbia senso parlare di screening di massa: in un paese ignorante il rischio di caccia all’untore sarebbe troppo elevato.
Perché le domande che ponete assumano un senso sono necessari, a monte, massicci interventi pubblici sul piano sociale nel contrasto della discriminazione delle persone sieropositive (l’unico seminario e l’unica campagna rivolta direttamente alle persone sieropositive ci risulta essere di Arcigay Bologna del lontano 2008) e di informazione di tutta la popolazione.
Poi potremmo serenamente parlare di terapie precoci, aderenza alla terapia e screening, ma al Paese manca l’a, b, c. Vogliamo ripartire da questo?
Rebecca Zini, responsabile salute Arcigay
Sandro Mattioli, responsabile salute Arcigay Bologna
La vittoria costa
di Roberto Satolli
La notizia dal “New England Journal of Medicine” è che i farmaci antivirali, usati il più presto possibile in tutti gli infetti da Hiv, potrebbero essere la chiave per liberarci dall’incubo Aids. Se chi scopre di essere infetto comincia subito a ricevere il trattamento, anziché aspettare che il virus faccia danni, la possibilità di contagiare il partner sano crolla del 96 per cento, secondo uno studio condotto in nove Paesi (sparsi tra Africa, Sudamerica e Usa). La cura precoce fa bene anche al diretto interessato, riducendo per esempio il rischio di contrarre la tubercolosi, ma l’effetto clamoroso è sulla trasmissione ad altri, col risultato di tagliare le gambe all’epidemia, se usata sistematicamente insieme a uno screening di massa per l’Hiv.
La buona notizia finisce qui, mentre restano tutte le cattive ben note. Dopo 30 anni, 60 milioni di infetti e 30 milioni di morti il vaccino è sempre di là da venire, e la terapia a tappeto dei contagiati sembra oggi la soluzione più promettente per il controllo del virus.
Ma è lecito indurre i sieropositivi che stanno bene ad assumere pillole potenzialmente tossiche per il bene della salute pubblica? E se non verranno costretti, in quanti aderiranno? Per non parlare dell’incubo della resistenza, evocato da un uso massiccio dei farmaci su scala planetaria, e infine dei costi: chi è in grado di pagare il conto per screening e trattamento di massa nei Paesi più poveri, oltretutto con la crisi che incombe?