Pride di lotta, non di rissa

  

Verso ciò che ci unisce, contro chi cerca di dividere.

di Gabriele Piazzoni

Segretario nazionale Arcigay

Da tempo si è innescato nel movimento LGBTI Italiano un conflitto sulla questione della Gestazione per Altri, scontro che nelle ultime settimane ha raggiunto picchi sicuramente preoccupanti.  Una discussione che,  per il tema che affronta,  comprensibilmente appassiona. Tuttavia non possiamo non osservare che a questo scontro non corrisponde alcun processo di cambiamento reale, anche solo sul piano legislativo, e che l’assenza di una contestualizzazione del dibattito in una riflessione più ampia sulla genitorialità, sui diritti riproduttivi e sull’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita nel nostro Paese, rischia di apparire, a chi osserva da fuori, una battaglia che interessa concretamente un gruppo molto ristretto di persone, tra l’altro eterosessuali nella  stragrande maggioranza dei casi, senza alcuna ricaduta concreta all’orizzonte. Anche soltanto questo pericolo di fraintendimento dovrebbe sollevare seri allarmi. Non solo: questo dibattito sta assumendo toni burrascosi, a tratti perfino violenti, di certo controproducenti nella stagione dell’onda pride,   con il concreto rischio di produrre  spaccature dannose, sterili e in alcuni casi perfino irrecuperabili.

 

Un dibattito che per come si sta sviluppando rischia di lasciare un cumulo di rovine dietro di sé, senza alcuna speranza di raggiungere una posizione ragionata attorno al tema che si propone di discutere.  Concentrare il dibattito in modo ossessivo attorno alla Gestazione per Altri rischia di schiacciare la richiesta di riconoscimento dei diritti dei bambini e delle bambine e di indebolire la più ampia battaglia per il riconoscimento della genitorialità per le persone LGBTI, che invece include anche la questione dell’accesso alla fecondazione eterologa per donne lesbiche, le lacune di diritto nei casi di coparenting (molto diffusi ma del tutto ignorati nella discussione) e la richiesta di una riforma della legge sulle adozioni, ora basata su un  discriminatorio criterio di esclusività per le coppie eterosessuali, che lascia fuori  addirittura i single.

 

Una battaglia che rischiamo di perdere su tutti i fronti se non riusciamo ad affermare innanzitutto che i bambini cresciuti da persone LGBTI, a prescindere da come sono venuti al mondo, devono vedere tutelati i propri affetti e i legami che hanno con le persone che li amano, li crescono e li educano. Scardinando quell’ortodossia assurda   che vede le coppie eterosessuali come unici genitori possibili (e di conseguenza la sterilità imposta delle persone omosessuali),  principio discriminatorio di cui è ancora intrisa la nostra legislazione e la cultura popolare del nostro Paese. Occorre cogliere quindi il pericolo enorme davanti al quale ci pone l’impostazione sbagliata di questo dibattito, che pare concentrare i suoi  sforzi e la sua capacità di discussione attorno a un solo aspetto, ignorando tutto il resto.

 

Discussione e confronto sono sempre benvenuti, anzi auspicabili, Purché siano però  improntati sulla civiltà, sul rispetto delle persone, delle loro opinioni e delle storie di cui ciascuno e ciascuna di noi è portatore e portatrice. E sul riconoscimento: delle identità, dei ruoli, delle voci che si alzano, delle nostre associazioni.

Per sua natura la Gestazione per altri è un tema sul quale la discussione non si può risolvere in un netto prendere o lasciare, perché sappiamo che la GPA assume molte forme e contiene tantissimi aspetti che impattano sulla sensibilità delle persone e sul loro sentire più profondo. Le possibilità di discordia sono tante quante sono le differenti legislazioni e i contesti culturali e sociali nei quali viene calata questa pratica.

 

Occorre prendere atto, con approccio pragmatico e democratico, dell’impossibilità di avere una discussione riducibile ad un si o ad un no su questo tema. Nel frattempo però si possono stabilire dei punti fermi che sono i capisaldi del movimento LGBTI e delle sue battaglie: ad esempio la tutela delle persone più deboli e   il principio di  autodeterminazione, più volte richiamati nelle diverse discussioni, non senza vistose contraddizioni. Ma soprattutto è necessario fissare un metodo, che dal nostro punto di vista passa necessariamente da un’occasione di incontro ampio e trasversale, nel contesto della battaglia per la piena uguaglianza , tenendo però presenti due elementi: la stagione dei Pride innanzitutto, che è in corso e che rappresenta uno dei nostri più grandi patrimoni. I Pride sono di tutte e tutti, sono il nostro grande strumento di liberazione, e fortunatamente perseverano nel loro essere un’esperienza collettiva, che resiste evidentemente a chi vorrebbe impossessarsene, a suon di  comunicati stampa o nel balletto – ai più incomprensibile – delle adesioni o non-adesioni. Il secondo elemento da tenere presente il rispetto e il riconoscimento di tutte le forze del movimento. L’autodeterminazione si fonda sugli spazi politici e sulla condivisone di un coprotagonismo nel dibattito pubblico: chi non concede lo spazio di questa discussione  e chi tenta di forzare i necessari processi di sintesi interna delle associazioni,  colpisce duramente la nostra stessa storia.

 

Infine un appello: non usiamo più la formula “Utero in affitto”. Mettiamola al bando, qualunque sia il nostro pensiero in merito. Facciamolo non tanto per una questione di politicamente corretto e non solo perché quelle parole appartengono alla destra più omofoba, che ci vuole sconfitti. Facciamolo perché crediamo nell’autodeterminazione, che significa lasciare alle persone che attraversano quell’esperienza il diritto di darle il nome più autentico, senza imporre definizioni iniettate di disprezzo e che richiamano l’uso violento del linguaggio che da sempre subiamo, sin da quando venivamo definiti invertiti o pervertiti, nonostante le nostre vite non invertissero alcunché né si fondassero su alcuna perversione.