La giornata di un gay a Cuba

  

Negli anni 70 il movimento omosessuale italiano gridava, inascoltato «Cuba ci castra». Riassumendo cosi efficacemente come in quel paese, allora mito intoccabile di tutta la sinistra italiana, i nostri fratelli e sorelle cubani fossero incarcerati o esiliati da un regime non democratico. Noi gay, quindi, riaffermiamo che i diritti umani e di libertà non possono essere subordinati rispetto alle conquiste sociali e di questo ho parlato sabato, alla festa dell’Unità, nel corso di un incontro insieme ad altri relatori su Cuba.

Nel mondo sono oltre ottanta i paesi, che nel loro codice penale contengono norme repressive contro i cittadini omosessuali, tra cui la Cina, la Birmania, i paesi islamici, e Cuba.

Naturalmente facevano impressione i talebani che condannavano a morte i gay per schiacciamento, ma che dire del «moderato» Egitto che ancora di recente ha emesso condanne ai lavori forzati verso giovani «sospetti di sodomia».

A Cuba, dalla rivoluzione in poi, si sono alternati periodi di feroce repressione con altri di relativa tolleranza. Negli ultimi anni la legislazione è stata addolcita. Non si reprime più ufficialmente l’omosessualità, ma si utilizzano le norme contro la prostituzione (ovvero è vietato dare pubblico scandalo e fare proposte sessuali esplicite) per dar mano libera alla polizia, attraverso retate nei locali frequentati da gay, che sono sempre accompagnate da soprusi d’ogni tipo.

Agli inizi degli anni 90 fu possibile tenere a Cuba una sorta di Gay Pride, ma nel 1997 l’associazione che aveva organizzato l’evento fu sciolta dal regime. A Cuba, una delle proposte di Fini è già legge: i maestri dichiaratamente gay non possono insegnare. Avere il coraggio di dire queste cose significa, però, coltivare una forte coerenza, ovvero ricordare sempre con rigore tutti i governi che calpestano i diritti civili, che rispondono alla violenza con la pena di morte o con limitazioni sempre più soffocanti delle libertà individuali. Vale qui la pena citare, come esempio guida, che il movimento glbt americano, qualche tempo fa, si è decisamente opposto alla condanna a morte inflitta a due giovani, che hanno trucidato un giovane gay, perché gli sembrava giusto farlo.

Per queste ragioni Cuba per noi non rappresenta un’isola del male, ma una società che interroga anche la sinistra italiana rispetto ai suoi ritardi storici rispetto alle libertà. Cuba è in primo luogo un popolo che soffre a causa di un ignobile embargo economico. Allo stesso tempo il castrismo ha utilizzato l’embargo per nascondere i disastri prodotti, che sono diventati evidenti dopo che sono mancati il sostegno economico e politico del defunto sistema dell’Est. Dall’interno della società cubana dovranno provenire le risposte del cambiamento. Ma la cooperazione internazionale, come già sta facendo può aiutare i cubani sia economicamente e sia culturalmente. Come movimento glbt italiano siamo, per esempio, interessati e pronti a lavorare con nuovi organismi che dovrebbero occuparsi delle discriminazioni di tipo sessuale. Anche da ciò si misurerà la reale volontà di aprire una fase nuova a Cuba.

Aurelio Mancuso
Segretario nazionale Arcigay


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