Checco il gay e l’omicida poco tecnologico

  

Aveva una bella voce, Checco. Una voce per cantare. Gli avevano spiegato che a Roma, di sicuro, avrebbe avuto successo. E che valeva la pena tentare, quando si ha una voce così, buona per sfondare. Perciò, con la valigia allegra del musicante, se n’era andato dalla sua Sardegna, e aveva cantato al Festival di Napoli e alle selezioni nazionali per Sanremo. Aveva una bella voce, Checco, ma chi l’ascoltò per l’ultima volta non se ne accorse: sentì solo un grido d’aiuto, l’ultimo acuto di là dai cespugli, quand’era già troppo tardi. Poi la notte calò su un nuovo delitto di vita, che all’alba i giornali raccontarono così: «Giovane gay massacrato a Roma».

Checco Bertolini

Checco Bertolini

Aveva 26 anni, Francesco Alessandro Bertorini, Checco per gli amici. Cercava amore e lo prometteva, qualcuno diceva che l’avesse trovato, ché da tempo faceva coppia fissa con un attore di Emozioni, il musical scritto da Japino e dedicato a Lucio Battisti. Emozioni. Doveva cercarle ancora, invece, se quella sera all’attore e agli amici della compagnia teatrale aveva detto che no, non sarebbe andato a cena con loro perché aveva altri programmi. E doveva averle trovate, o almeno così pensava, se quella notte s’era infilato, ingenuo, dentro un’avventura neonata, senza sapere che l’avrebbe condivisa col suo assassino.

Dove l’aveva conosciuto? E quando? Con chi s’era avviato una notte calda di luglio, verso le Terme di Caracalla, toponomastica abusata di amori clandestini? Vanno verso le Terme di Caracalla/ giovani amici, scriveva Pier Paolo Pasolini con maschile/ pudore e maschile impudicizia,/ nelle pieghe calde dei calzoni/ nascondendo indifferenti, o scoprendo/ il segreto delle loro erezioni… Vanno verso le Terme di Caracalla, Checco e il suo amico. E a piazza di Porta Capena, si appartano dietro una siepe. Le grida d’aiuto, gli ultimi lamenti, escono di lì: un’altra coppia furtiva sente voci concitate, come di un litigio. E poi le urla. E chiama la polizia.

Il corpo di Checco sembra quello di un bambino, ché era un ragazzo esile, quasi gracile, con «una mano isterica», come diceva lui, che gli «tremava nervosamente e vistosamente» quand’era sul palco a cantare. Uno che l’emozione, la tensione, se lo portava via. Un ragazzo dalla sensibilità esasperata. Un ragazzo della Maddalena, innamorato della sua Sardegna, che aveva perduto presto il padre e in quell’estate romana non aveva accanto neppure la madre, tornata nell’isola per una breve vacanza: un tipo fiducioso e indifeso, che temeva solo di non cantare abbastanza bene.

Il corpo-bambino ha i pantaloni abbassati e la testa fracassata. A bastonate, si saprà più tardi. Colpito a tradimento con un ramo, una, due, dieci volte: e non si capisce bene se Checco Bertorini abbia consumato un rapporto con il suo amico prima d’essere ridotto a quel modo. E di finire derubato del niente che aveva: cinquantamila lire e un telefonino cellulare. Quello che tradirà il suo assassino.

Eccolo il cellulare, nelle mani di un’ignara ragazza sarda. L’ha appena ricevuto in dono dal cugino, che viene da Roma. È agosto ormai, dal delitto delle Terme di Caracalla è passato un mese e tutti pensano che per l’indagine è buio pesto e che anche questo omicidio di un gay, come troppi altri, resterà impunito. Macché.

«Questo telefonino è per te», le ha spiegato lui, consegnandole il regalo, certo di non avere occhi addosso. Ché è stato attento a non fare mai una telefonata con quel cellulare e anzi ha subito gettato via la scheda e anzi non l’ha nemmeno acceso. E anche le altre mosse sono state abili e tempestive: è stato a Roma fino a qualche giorno prima, facendo la spola con Cisterna di Latina, dove sta la sua donna (che non sa nulla del delitto) e prima ancora se n’era andato a Monaco di Baviera, dove s’era presentato alla Polizia tedesca un po’ seccato perché aveva appena perduto i documenti e per dire che era lì, tra Stachus e Marienplatz, da un po’ di giorni, compreso quello del delitto naturalmente.

Omocidi, di Andrea Pini

“Omocidi”, di Andrea Pini

Mica male l’idea di un alibi sfornato, ché non si sa mai, direttamente dalla Polizei. Ma in Sardegna lui non è solo, e lo seguono pure quando torna a Cisterna di Latina, in attesa del passo falso. La Mobile di Roma gli sta addosso da un po’. Da quando, esaminati i tabulati con tutte le telefonate partite dalle cabine nella zona di Porta Capena, fino a mezz’ora dopo il delitto di Checco, ha individuato quattro utenze più interessanti delle altre, giacché fanno capo a quattro pregiudicati. E lui, problematico bisessuale fanno sapere gli amici interrogati, guarda un po’, nell’84 ha ammazzato una prostituta, Paola Mainetti detta «Barbara» a Castelgandolfo, massacrandola con un bastone. E si è fatto quindici anni di carcere e uno da sorvegliato speciale: è libero da appena un anno. Lui è sardo come Checco. Lui, quindici anni prima, frequentava Monte Caprino: ancora la geografia romana degli amori al buio. Monte Caprino: dove nell’82, Salvatore Pappalardo, 36 anni, fu massacrato a bastonate e il suo delitto aspetta ancora un colpevole.

Lui si chiama Attilio Sestu, ha 41 anni, e quando lo arrestano prima nega deciso, duro, poi scoppia a piangere, confessa e vuole stringere la mano agli investigatori, perché sono stati bravi a beccarlo e lui sciocco a regalare il telefonino di un morto ammazzato. Racconta che lui è rimasto coi ricordi agli anni Ottanta, a quel Monte Caprino di allora e ci torna una sera di luglio. E incontra Checco, che viene dalla Maddalena, sardo come lui, che invece è di Uta. Parlano di casa, si capiscono. E Checco lo porta a passeggio per Roma, ché non sa di avere accanto uno che ha già ammazzato. E prima lo porta a piazza Navona, al Corso, «e poi al bar di piazza Venezia dove vanno i signori».

Chissà se gli parla della sua bella voce, Checco. Se gliela fa sentire. Se gli racconta di Sanremo. Intanto s’è fatto tardi. Vanno verso le Terme di Caracalla, giovani amici. Che Sestu è fermo ai 24 anni di allora, alla notte che massacrò «Barbara» a bastonate e finì in galera. Checco gli chiede di fare l’amore e lui ci sta: dietro a quei cespugli andrà bene. Ma Attilio non riesce a eccitarsi, non riesce ad accettarsi in quel rapporto. Lo prende un feroce senso di colpa.

E se si eccita, adesso, è solo per uccidere. Checco l’amico sardo, adesso, è solo una checca da massacrare. L’assassino lo colpisce sulla testa con un ramo. E prova a strangolarlo, prima a mani nude, poi stringendogli al collo la camicia. Il ragazzo grida a morte, mentre l’omicida gli ripulisce le tasche e di lì a poco telefonerà alla sua donna, perché ha perso il treno per Latina. La chiamata che lo perderà.

È così. Attilio Sestu perduto da una telefonata e incastrato da un telefonino: lui, fermo agli anni Ottanta, rari tabulati e niente cellulari. E Checco Bertorini perduto dall’ingenuità d’immaginare in ritirata i pregiudizi e i sensi di colpa, e la violenza che si trascinano dietro: immemore di un poeta — Vado anch’io verso le Terme di Caracalla — finito come lui.

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