La storia di Gareth, gay e giamaicano

  

Luglio 2005

Gareth Henry è il presidente di J-FLAG (Jamaica Forum for Lesbian All-sexuals and Gays) Fa parte dell’associazione dal 1998 ma ne ha assunto la guida lo scorso anno, dopo che l’allora presidente è stato ucciso a botte da un gruppo di persone rimasto senza nome e senza volto.

Non c’è protezione da questo genere di crimini nell’isola: uccidere un gay non è considerato un disvalore sociale, così la polizia non raccoglie le testimonianze, e i processi neppure si aprono.

È stato proprio un poliziotto, due anni fa, a cacciare Gareth dal suo quartiere, insieme a una sessantina di vicini: loro non lo volevano lì, perchè lui è un “batty bwoy”, un frocio, così ha dovuto trasferirsi altrove. È stato un altro poliziotto a violentarlo, tre anni fa.

Lo scorso giugno, a Montigo Bay, Gareth ha assistito al pestaggio del suo amico Victor da parte di una folla inferocita. Quando è arrivata la polizia a salvarlo dal linciaggio, loro gli hanno spiegato che quell’uomo era omosessuale, così la polizia glielo ha ridato indietro. Victor è riuscito a scappare, nonostante il dolore per le percosse. Ha corso come un matto per un chilometro e mezzo, fino al centro del paese, mentre la folla lo inseguiva. Ha cercato rifugio in un locale, ma quelli lo hanno rigettato in strada. La folla urlante lo aggredito con bastoni, sassi, tutto quello che c’era a portata di mano. Victor è morto. Non c’è stato nessun processo. A Gareth è rimasto il dolore di avere perso un amico, il rimorso per non averlo potuto salvare e la frustrazione del rifiuto della polizia a raccogliere la sua testimonianza.

Ora Gareth, un ragazzo di ventisette anni, non frequenta più luoghi pubblici. Nessun autobus, nessun ristorante. Solo il posto di lavoro e casa sua, dove coordina J-Flag, una rete clandestina che raccoglie diverse centinaia di gay e lesbiche ma che non può organizzare niente di pubblico: non un incontro, né una festa o una riunione. Le campagne iniziate sono state interrotte perchè ogni volta un militante dell’organizzazione veniva picchiato o ucciso. Qualche programma televisivo locale ha cercato di contattarli, perchè il tema può fare audience, ma chi mostra la sua faccia rischia di perdere il lavoro o di essere cacciato di casa. Forse di firmare la sua condanna a morte. Sono stati sei gli omicidi di ”chi chi man” nel 2004 mentre altri 151 sono stati picchiati o perseguitati. Il governo giura che in Giamaica non ci sono gay, ma mantiene la legge antisodomia, eredità della dominazione inglese, che prevede fino a dieci anni fra carcere e lavori forzati.

La famiglia spesso ti caccia da casa se scopre che sei un batty bwoy. Così finisci giovanissimo sulla strada. L’anno scorso un ragazzino si è confidato con la sua insegnante. Lei lo ha detto a tutta la scuola, dove in molti lo hanno preso a botte. Quando il padre lo ha saputo lo ha picchiato fino a mandarli in ospedale, da dove è scappato poco dopo. Da allora nessuno sa che fine abbia fatto.

Dal 1994 una proposta di legge sui diritti umani di donne e bambini è depositata in Parlamento, ma contiene anche due righe sulle discriminazioni antigay, così è rimasta bloccata.

Le chiese cristiane (per lo più protestanti: metodiste, battiste, avventiste) non muovono un dito: per loro i batty men sono Sodoma e Gomorra, il male assoluto. Solo qualche appartenente alla Chiesa cattolica, come monsignor Albert, si pronuncia contro le violenze antigay. Neanche la comunità rasta può essere un alleato, perchè la sodomia è Babylon, e allora “burn the fire”. In più l’omofobia affonda le sue radici in una concezione dell’omosessualità come di un elemento di importazione dell’uomo bianco che contamina l’identità culturale nera. Così c’è poco da fare, se non andare da Amnesty Jamaica, diretta dall’italiana Maria Carla Gullotta, a chiedere asilo politico in Inghilterra, come hanno fatto già in cinquantuno.

Proprio Maria Carla ha voluto che Gareth venisse a raccontare la sua storia in Italia, al Rototom SunSplash Festival, il più grande raduno reggae d’Europa che si tiene ogni anno ad Osoppo, a nord di Udine e che prevede quest’anno 180.000 presenze. Una vera e propria città del reggae (15.000 residenti fissi per i nove giorni del Festival, quest’anno dall’1 al 9 luglio) che ha deciso di affrontare, sull’onda delle polemiche nate in tutta Europa, la spinosa questione dell’omofobia violenta contenuta nei testi di alcuni dei più popolari artisti giamaicani.

“Stop Murder Music” si chiama la campagna promossa da SOS Jamaica, organizzazione nata per sensibilizzare sulla tematica dei diritti umani nell’isola, a cui il festival di Osoppo aderisce.

Così, niente Capleton e niente Sizzla, i due musicisti su cui, nelle scorse settimane, si era concentrata la campagna di protesta di Arcigay. Niente Buju Banton, che ha partecipato attivamente alla spedizione in cui Bryan, un timido gay quarantenne di Kingston, ha perso un occhio per le botte. Né Beenie Man, con cui Rototom aveva sottoscritto un contratto in cui il musicista si impegnava, oltre a chiedere scusa per i testi scritti in passato, a “rinunciare alla violenza verso gli altri esseri umani in ogni sua forma”, ma che in Giamaica ha continuato a cantare in pubblico i brani incriminati.

All’incontro ha partecipato il presidente nazionale di Arcigay, Sergio Lo Giudice, che ha esposto le ragioni delle proteste delle organizzazioni gay e lesbiche in tutta Europa e ha proposto un’alleanza fra le organizzazioni omosessuali, gli organizzatori di concerti e il popolo del reggae per isolare gli elementi di degenerazione violenta del messaggio di pace, rispetto e amore universale propagato in tutto il mondo da Bob Marley. L’idea è stata raccolta dagli organizzatori del Rototom, che hanno rilanciato con una proposta operativa: una grande petizione per l’abolizione della legge giamaicana antisodomia da diffondere nelle prossime settimane attraverso i canali di comunicazione del popolo reggae e da inviare poi insieme ad Arcigay, al governo giamaicano.


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