Proposta di Legge italiana contro le discriminazioni

  

Ecco la proposta di legge antidiscriminatoria presentata nella nuova legislatura alla Camera dei Deputati dall’on. Franco Grillini (Ulivo) insieme ad altri venti firmatari, nonché al Senato dal Sen. Gianpaolo Silvestri (Verdi).

La proposta di legge contiene una corposa relazione introduttiva con molte informazioni preziose su quello che è lo stato dell’arte in tema di legislazione in materia di lotta alla discriminazione motivata dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, nonché una descrizione dell’articolato della legge.

Complessivamente ci sono 29 articoli raccolti in 4 capi.

Stop alle discriminazioni

Stop alle discriminazioni

Il primo capo raccoglie insieme disposizioni dal contenuto eterogeneo: 1) la modifica della c.d. legge Mancino (legge antidiscriminatoria) prevedendo l’estensione anche all’orientamento sessuale e all’identità di genere della protezione assicurata contro la discriminazione, l’odio e la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi; 2) la previsione della tutela da ogni intolleranza, dileggio, disprezzo o colpevolizzazione all’interno delle scuole, con la possibilità per le vittime di richiedere un risarcimento nei confronti del colpevole e della scuola; 3) il divieto di discriminazione in materia di assicurazioni sanitarie, attraverso l’applicazione delle stesse condizioni assicurative e la previsione della nullità delle clausole che facciano dipendere una diversità di trattamento solo in ragione dell’orientamento sessuale o l’identità di genere dell’assicurato; 4) la concessione del diritto di asilo e del divieto di espulsione per gli stranieri che nei propri paesi sarebbero perseguitati a causa del proprio orientamento sessuale o dell’identità di genere; 5) l’estensione della tutela del norme per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, introdotte dal D.Lgs. 216/2003, anche all’identità di genere, oltre che all’orientamento sessuale.

Il capo secondo contiene disposizioni che modificano il citato D.Lgs. 216/2003, che ha dato attuazione alla Direttiva europea 2000/78/CE, prevedendo tra l’altro che in materia di lavoro non si possa essere discriminati a causa dell’orientamento sessuale. Tuttavia la legge italiana ha previsto una serie di ampie eccezioni che limitano e tradiscono la portata della Direttiva e che con questa legge vengono rimosse. Vengono introdotte modifiche anche in tema di tutela giurisdizionale dei diritti, con il recupero dell’inversione dell’onere della prova a favore del lavoratore, che nella Direttiva c’è ma che il legislatore italiano aveva eliminato e l’estensione anche alle associazioni della possibilità di agire in giudizio per tutelare le persone discriminate.
Viene modificato anche l’art. 10 della c.d. legge Biagi (legge di riforma del mercato del lavoro) prevedendo che nessuno possa fare indagini o trattare dati che rivelino l’orientamento sessuale o l’identità di genere di chi cerca lavora, anche se l’interessato fornisce il proprio consenso al trattamento, tranne nei casi in cui la natura del lavoro o il contesto in cui deve essere svolto prevedono che queste o altre caratteristiche siano requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa, nel rispetto però dei principi di legittimità e proporzionalità.

Il capo terzo istituisce un’Autorità indipendente per la lotta alle discriminazioni, sul modello dell’Autorità Garante per la privacy, che ha competenza in materia di discriminazioni fondate su razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età, sesso, orientamento sessuale e identità di genere, e che va a sostituire l’ufficio per il contrasto contro le discriminazioni costituito presso la Presidenza del consiglio con competenza solo in materia di discriminazioni razziali. In questo modo l’Italia si pone in linea con quasi tutti i paesi dell’Unione, che si sono dotati di una tale Autorità indipendente, presente anche nei paesi baltici e in Bulgaria.
L’autorità controlla, garantisce e promuove la parità e la rimozione di ogni forma di discriminazione fondata sulle caratteristiche sopra menzionate. Le persone discriminate possono rivolgersi direttamente all’Autorità per la tutela dei propri diritti in via alternativa a quella giurisdizionale.

Il capo quarto contiene le disposizioni finali che modificano il D.Lgs. 215/2003, norma di attuazione della direttiva 2000/43/CE, per la lotta alla discriminazione razziale nell’ambito del lavoro, armonizzando questa legge con il D.Lgs. 216/2003. L’ultimo articolo della proposta di legge Grillini modifica l’art. 17 della legge sulla disciplina militare, la n. 382/78, prevedendo il divieto di discriminazione a causa dell’orientamento sessuale in sede di attribuzione di incarico, di assegnazione o di trasferimento a comandi, a enti, a reparti, ad armi o a specializzazioni.


Proposta di legge: Modifica delle norme di attuazione delle direttive 2000/78/CE e 2000/43/CE e norme contro le discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere

Primo Firmatario: Franco Grillini (Ulivo)
N° firmatari: 20
Firmatari: Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi), Fabio Mussi (Ulivo), Giuseppe Giulietti (Ulivo), Gloria Buffo (Ulivo), Katia Zanotti (Ulivo), Sesa Amici (Ulivo), Lanfranco Turci (Misto, Rosa nel Pugno), Massimo Zunino (Ulivo), Giuseppe Caldarola (Ulivo), Andrea Lulli (Ulivo), Cesare Damiano (Ulivo), Massimo Cialente (Ulivo), Raffaella Mariani (Ulivo), Franca Chiaromonte (Ulivo), Marco Filippeschi (Ulivo), Grazia Francescato (Misto, Verdi), Elena Emma Cordoni (Ulivo), Valdo Spini (Ulivo), Michele Meta (Ulivo)

COLLEGHE E COLLEGHI DEPUTATI !
La presente proposta di legge ha come obiettivo quello di garantire l’attuazione delle direttive sulla parità di trattamento in maniera conforme alle disposizioni europee, con particolare riferimento alla direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ed alla direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dal’origine etnica. In presenza di un sistema giuridico in cui tuttavia diversi individui o gruppi sociali a rischio di discriminazione sono soggetti a forme di protezione differenziata, e sostanzialmente più debole per alcuni, la presente proposta di legge si propone altresì di assicurare che l’ordinamento protegga in modo sostanziale il principio di parità di trattamento garantendo un medesimo livello di protezione a tutti i cittadini ed i gruppi sociali, indipendentemente dai motivi di discriminazione.
Per questa ragione il capo I della presente proposta di legge rivolge la propria attenzione in particolare alle discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, che per decenni sono state ignorate dal nostro sistema giuridico, di fatto negando a milioni di cittadini la garanzia del riconoscimento di quel principio di uguaglianza in senso formale e sostanziale che la Costituzione della Repubblica solennemente enuncia all’articolo 3.
Per decenni l’ordinamento italiano ha omesso di garantire qualsiasi forma di protezione contro atti o comportamenti dettati dall’omofobia e dalla transfobia, nonché di prevedere un divieto di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere nonostante i numerosi richiami in tal senso delle istituzioni europee.
L’Italia ha per anni sistematicamente ignorato la nota risoluzione del Parlamento europeo dell’8 febbraio 1994 sui diritti delle persone omosessuali, nonché le precedenti risoluzioni in materia antidiscriminatoria dello stesso Parlamento europeo, approvate fra il 1984 e il 1990, tra cui quella più dettagliata ed espressamente rivolta contro le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, proposta dall’eurodeputata italiana Vera Squarcialupi e approvata il 13 marzo 1984, a tutte quelle che più sinteticamente ribadivano la necessità che venissero adottate legislazioni antidiscriminatorie in vari campi dagli Stati membri, che tenessero conto fra le altre, e allo stesso titolo, anche della discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (D’Ancona 11 giugno 1986, Parodi 26 maggio 1989, Buron 22 novembre 1989, Ford 23 luglio 1990). Tali risoluzioni sono state il prologo all’inclusione nel Trattato istitutivo della Comunità europea, come modificato dal Trattato di Amsterdam di cui alla legge 16 giugno 1998, n. 209, (articolo 13) di una disposizione sulla produzione di normative comunitarie antidiscriminatorie, che pone sullo stesso piano le discriminazioni basate sulle «tendenze sessuali» (eccentrica versione italiana della locuzione «orientamento sessuale», che compare nei testi inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e danese del Trattato) e quelle fondate su sesso, razza, origine etnica, religione, opinioni, handicap fisici o età; e i loro princìpi sono stati poi ribaditi nella risoluzione «Sulla parità di diritti per gli omosessuali nell’Unione europea» approvata dal Parlamento europeo il 17 settembre 1998 e nelle risoluzioni in materia di diritti umani approvate tra il 1996 ed il 2005. Di simile avviso si è espresso negli anni il Consiglio d’Europa, la cui Assemblea parlamentare approvava già il 1 ottobre 1981 la raccomandazione n. 924 «Sulla discriminazione contro gli omosessuali». Ancora, il 26 settembre 2000 la stessa Assemblea approvava, con una maggioranza del 77 per cento, la raccomandazione n. 1474 che nuovamente invitava tutti gli Stati membri ad introdurre una legislazione antidiscriminatoria esaustiva (oltre che a riconoscere la parità di diritti per le coppie omosessuali e ad includere un divieto esplicito di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). Tale voto seguiva quello del 6 giugno, in cui la stessa Assemblea parlamentare aveva approvato un’analoga raccomandazione, con la quale si invitavano gli Stati membri ad includere la persecuzione degli omosessuali fra le ragioni del riconoscimento del diritto di asilo nel proprio territorio ed a garantire il diritto di immigrazione per i partner di coppie binazionali formate da persone dello stesso sesso. Infine, un esplicito divieto di discriminazioni fondate, tra l’altro, sull’orientamento sessuale è stato inserito nell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Allo stesso modo, il legislatore italiano ha ignorato la risoluzione del Parliamento Europeo sulla discriminazione contro le persone transessuali del 1989 che indicava, tra le altre cose, la necessità di misure antidiscriminatorie esplicite, con particolare riguardo al settore del lavoro, ed il riconoscimento del diritto d’asilo per le persone a rischio di persecuzione nel paese d’origine a motivo della propria identità di genere, così come la raccomandazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa n. 1117 del 1989 sulla condizione delle persone transessuali che richiamava con forza il principio di non discriminazione stabilito dall’articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Soltanto in seguito all’introduzione della direttiva 2000/78/CE sopra citata il legislatore italiano si è visto costretto ad introdurre un divieto di discriminazione che includesse altresì l’orientamento sessuale. Così, per la prima volta nella storia del nostro ordinamento giuridico, il divieto di discriminazione fondato per l’appunto sull’orientamento sessuale è divenuto legge dello stato. Tuttavia, non soltanto il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 attuativo della norma comunitaria ha scelto un approccio minimale, non cogliendo le opportunità e gli spunti che venivano offerti da una lettura complessiva delle due direttive “gemelle” sulla parità di trattamento, la 2000/78/CE e la 2000/43/CE, come invece avvenuto nella maggior parte degli stati membri dell’Unione Europea, inclusi i paesi candidati, ma ha introdotto disposizioni in palese violazione della norma comunitaria, che potrebbero prima o poi venire sanzionate dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Il testo del decreto 216/2003, oltre ad ignorare talune cruciali previsioni comunitarie, ha palesemente sfruttato in chiave restrittiva le «zone d’ombra» della direttiva 2000/78/CE, in particolare introducendo eccezioni generali e non circostanziate all’applicazione del principio di parità di trattamento: da ciò consegue il rischio che i princìpi contenuti nella direttiva restino lettera morta e che gli strumenti che erano stati determinati per garantire una protezione effettiva contro le discriminazioni siano inefficaci, soprattutto nei confronti di quegli individui o gruppi sociali che ancora sono vittime di stigmatizzazione sociale. Tale attuazione impropria ed inadeguata non ha riguardato soltanto il decreto legislativo 216/2003, ma anche il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 relativa all’attuazione della direttiva sulla discriminazione razziale 2000/43/CE.
Pertanto, nell’ambito della definizione di una disciplina antidiscriminatoria relativa all’orientamento sessuale ed all’identità di genere adeguata agli standard stabiliti dalle istituzioni europee ed introdotti ormai nella maggioranza dei paesi dell’Unione Europea (così come in numerosi altri paesi tra cui Canada, numerosi stati degli Stati Uniti, Australia, Repubblica Sudafricana, Nuova Zelanda, Messico), il presente disegno di legge si propone ai capi II, III e IV di ridefinire le norme di attuazione delle due direttive sulla parità di trattamento e di correggere le gravi omissioni e limitazioni stringenti dei decreti 215 e 216 del 2003.

Come si è detto, il capo I della legge mira ad introdurre specifiche misure antidiscriminatorie relativamente ai fattori dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. In particolare l’articolo 1 punisce i delitti motivati dall’odio omofobico e transfobico, così come l’incitazione all’odio omofobico e trasfobico estendendo la protezione già prevista dalla legge italiana in relazione all’istigazione ed ai delitti motivati dall’odio etnico, religioso e razziale, con riguardo alle norme del 1975 di ratifica della Convenzione per l’eliminazione della discriminazione razziale e della più recente «legge Mancino» contro il razzismo (decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205). Nei delitti motivati dall’odio contro minoranze oggetto di pregiudizi diffusi, ed alle conseguenze dell’atto delittuoso, si aggiunge un chiaro intento, che va sanzionato, volto a terrorizzare e ad escludere dalla vita sociale un’intera categoria di individui. Il fatto stesso che la legge abbia escluso l’odio omofobico o transfobico dalla protezione garantita ad altri gruppi sociali, ed approvato un generico quanto ineffettivo ordine del giorno che ammetteva il problema senza risolverlo, può essere pericolosamente avvertito come una forma di gerarchizzazione dei gruppi a rischio di discriminazione e di manifestazioni d’odio, ed un chiaro segnale di disinteresse da parte dell’ordinamento a proteggere un gruppo sociale che può, proprio per questo, determinare un incremento di episodi di odio nei confronti del gruppo escluso. Sono noti i numerosi casi di omicidi, in particolare a danno delle persone transgender, motivati esclusivamente dalla loro identità di genere, verificatisi anche nel nostro paese come in altri paesi dell’Unione Europea. Inoltre, la particolare violenza ed incitazione all’odio omofonico da parte di forze di estrema destra in Italia, così come in altri paesi europei, ha indotto il Parlamento europeo ad approvare il 18 gennaio scorso a grande maggioranza, con voto favorevole di gran parte dei membri del partito popolare, una risoluzione sull’omofobia in Europa che paragona l’omofobia e la transfobia al razzismo, al sessismo e all’antisemitismo ed invita gli stati membri a prendere misure di carattere penale proprio per contrastare tali fenomeni e misure antidiscriminatorie alla stregua di quelle già previste per altre forme di discriminazione, che non si limitino pertanto alla sola parità di trattamento relativa all’occupazione ed alle condizioni di lavoro.
L’articolo 2 si rivolge in particolare alla protezione degli studenti rispetto a prassi o comportamenti discriminatori, di intolleranza o di semplice dileggio nell’ambito delle attività didattiche o dei corsi di informazione ed educazione sessuale, considerato il particolare impatto traumatico che tali atti possono avere nella fase evolutiva di giovani ed adolescenti. L’omofobia e la transfobia, in un ambiente che non favorisce il dialogo sulle diverse identità sessuali e di genere, rappresentano infatti problemi sociali che possono essere causa di suicidio in soggetti in fase evolutiva, come noto da studi sociologici e psicologici effettuati, tra cui si può citare quello di Luca Pierantoni su «Il tentato suicido negli adolescenti omosessuali».
L’articolo 3 stabilisce l’illiceità di ogni riferimento e di ogni indagine relativi all’orientamento sessuale dell’assicurato o dell’assicurando nei contratti di assicurazione sanitaria e nel loro procedimento di formazione, e la nullità dei patti tendenti a rendere più oneroso per l’assicurato il contenuto di tali contratti in dipendenza del suo orientamento sessuale. In tale caso, il contratto è tuttavia valido (la precisazione potrebbe essere necessaria, dato che la nullità della clausola discriminatoria, colpendo la determinazione dell’entità del premio e/o dell’entità della controprestazione, rischierebbe di fare considerare indeterminato il contenuto) e la sua durata è anzi automaticamente prorogata a tempo indeterminato nell’interesse dell’assicurato; è anche prevista la sospensione della prescrizione dell’azione tendente ad ottenere la restituzione di quanto pagato in eccesso per tutta la durata del rapporto fino alla sua cessazione (in modo che la ripetizione possa sempre essere richiesta per intero, anche da eventuali eredi, qualora condizionamenti sociali impedissero all’assicurato di far valere i propri diritti in vita), o fino a che non sia richiesto l’accertamento giudiziale della nullità delle clausole discriminatorie.
L’articolo 4 intende garantire il diritto d’asilo al cittadino straniero perseguitato nel paese d’origine a motivo del proprio orientamento sessuale o dell’identità di genere. Tale prassi è in vigore in diversi paesi europei, e vi sono a riguardo decisioni favorevoli da parte della giurisprudenza italiana. Si tratta pertanto di garantire tale diritto per legge, così come il divieto di espulsione, considerato che in otto paesi del mondo gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso sono puniti con la pena di morte, e le attività sessuali appena citate costituiscono ancora fattispecie di reato in oltre ottanta paesi del mondo, ove le organizzazioni internazionali per la protezione dei diritti dell’uomo, così come gli special rapporteurs delle Nazioni Unite, denunciano torture, pene e trattamenti inumani, degradanti e umilianti, esecuzioni extragiudiziali e sommarie, detenzioni illegali e arbitrarie nei confronti di gay, lesbiche, transgender.
L’articolo 5 si propone invece di estendere la protezione prevista dal decreto legislativo 216 del 2003, come modificato dal presente disegno di legge, alla discriminazione fondata sull’identità di genere, per garantire alle persone transessuali e transgender lo stesso livello di protezione estesa che, in seguito alle modifiche introdotte dal presente provvedimento, sarebbero offerte agli altri fattori di discriminazione. Allo stesso modo ci si propone di aggiungere l’identità di genere al divieto di discriminazione previsto dall’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il cosiddetto Statuto dei lavoratori.
Il capo II, come anticipato, modifica le disposizioni del decreto legislativo 216 del 2003 di attuazione della direttiva 2000/78/CE.
Se l’articolo 6 ed il primo comma dell’articolo 7 precisano e migliorano rispettivamente lo scopo della norma di legge e la definizione del principio di parità di trattamento, il secondo comma dell’articolo 7 include nella definizione di discriminazione diretta ed indiretta l’atto di ritorsione nei confronti di chi si sia opposto, mediante un’azione, non necessariamente di carattere giudiziale, ad un comportamento, un atto o una prassi discriminatori, rafforzando in questo senso quanto disposto dal legislatore al comma 6 dell’articolo 4 del decreto 216 del 2003.
L’articolo 8 si pone in primo luogo il proposito di uniformare la disciplina interna di attuazione alla norma comunitaria. In tal senso il primo comma precisa quanto omesso dal legislatore italiano in riferimento all’ambito di applicazione del principio di parità di trattamento. I commi 4 e 6 invece ridefiniscono la nozione di eccezione allo stesso principio di parità di trattamento in relazione ai cosiddetti requisiti occupazionali, rimuovendo un’eccezione prevista dal legislatore italiano relativa alle attività delle forze armate, di polizia, penitenziarie e di soccorso che non soltanto non era contemplata dalla direttiva, ma era in palese violazione della stessa, oltre che contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nelle forze armate nei casi Lustig-Prean and Beckett contro Regno Unito e Smith and Grady contro Regno Unito. Il comma 5 ridefinisce la norma relativa agli accertamenti di idoneità che appare nel decreto 216 di dubbia interpretazione e pare al contrario aprire la strada ad una generica eccezione al principio di parità di trattamento. Il comma 7, nel determinare in modo conforme alla direttiva le circostanze in cui disposizioni, criteri e prassi non costituiscono forme di discriminazione indiretta, abroga il riferimento ai reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile, che oltre a non aggiungere nulla alla disciplina già vigente in materia, nulla ha a che vedere con il decreto in oggetto ma pare perseguire l’obiettivo di associare la pedofilia all’omosessualità, rafforzando il pregiudizio anziché combattere la discriminazione. I commi 2 e 3 si pongono un obiettivo diverso, ovvero l’ampliamento della protezione sulla parità di trattamento con riferimento all’assistenza sanitaria, protezione sociale, istruzione, erogazione di beni e servizi, incluso l’alloggio, ai fattori di discriminazione previsti dalla direttiva 2000/78/CE; in altri termini attraverso questi commi si garantisce una identica protezione contro le discriminazioni a tutti gli individui, indipendentemente dal motivo della discriminazione. L’introduzione di norme di maggior favore già stabilite dalla direttiva 2000/43/CE in riferimento all’origine etnica e razziale è stata effettuata in diversi paesi europei, nonché ribadita dal Parlamento europeo nella risoluzione contro l’omofobia del gennaio scorso, e la stessa Commissione europea sta valutando un’ampliamento della protezione della direttiva 2000/78/CE in tal senso.
L’articolo 9 riforma alcune delle disposizioni inerenti alla tutela giudiziale prevista dal decreto 216 del 2003, in particolare introducendo al comma 1 quella che è stata una delle più significative e clamorose omissioni del provvedimento di attuazione della norma comunitaria, ovvero l’assenza di previsioni relative all’inversione dell’onere della prova: il comma in oggetto si ripropone di introdurre la disciplina già prevista a riguardo dalle norme in materia di pari opportunità. Il comma 3 introduce una misura, anch’essa prevista dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 sulle azioni positive in materia di pari opportunità tra uomo e donna, volta a garantire l’efficacia tempestiva del provvedimento del giudice finalizzato alla cessazione del comportamento discriminatorio ed alla rimozione dei suoi effetti.
L’articolo 10 interviene a sanare un’altra situazione di palese violazione della norma comunitaria prevedendo che le associazioni e le organizzazioni portatrici di interessi specifici siano legittimate all’azione in giudizio, come richiesto dalla direttiva 2000/78/CE.
L’articolo 11 mira ad introdurre una previsione relativa al dialogo sociale e con le organizzazioni non governative che era richiesto dalla norma comunitaria e non considerato dal legislatore nazionale: in particolare il Ministero del lavoro, in concerto con gli altri ministeri competenti, le regioni e gli enti locali è chiamato a farsi carico di attività di consultazione, monitoraggio, elaborazione di codici di comportamento e buone pratiche.
Agli stessi enti viene riconosciuto inoltre dall’articolo 12 un ruolo nella diffusione di informazioni relative alle norme in materia di parità di trattamento, come già richiesto dal legislatore comunitario.
L’articolo 13 rende esplicito la nozione secondo cui tutte le norme contrattuali contrarie al principio della parità di trattamento sono considerate nulle.
All’articolo 14 ci si propone di sanare una ulteriore violazione alla direttiva introdotta dall’articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il quale conteneva un’eccezione indiscriminata al principio di parità di trattamento con riferimento al divieto di indagini da parte delle agenzie per il lavoro, andando ad indebolire uno dei momenti più delicati del rapporto di lavoro, ovvero l’accesso al lavoro.
Il capo III configura ed istituisce una Autorità per la lotta alle discriminazioni. L’obbligo di istituire una autorità indipendente è prevista dalla direttiva 2000/43/CE con solo riferimento alla discriminazione etnica e razziale. Il decreto 215 del 2003 di attuazione della direttiva stessa aveva istituito un Ufficio per il contrasto delle discriminazioni, abrogato dall’articolo 22 del presente disegno di legge, interno al Ministero per le Pari Opportunità e disciplinato da decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Tale configurazione violava evidentemente il requisito dell’indipendenza dell’organismo richiesto dalla direttiva.
Inoltre, laddove la grande maggioranza dei paesi europei, inclusi i paesi di recente adesione, avevano esteso le competenze dell’organismo di parità a tutti i motivi di discriminazione, sia quelli previsti dalla direttiva 2000/43 che dalla direttiva 2000/78, il legislatore italiano aveva optato per una soluzione modesta e minimale, costituendo quasi un unicum in Europa. Gli articoli 15-21 intervengono in tal senso, istituendo una autorità collegiale indipendente, formato da quattro componenti eletti dai due rami del Parlamento a garanzia dell’indipendenza dell’organismo su modello delle Autorità garanti già previste dall’ordinamento italiano. E proprio alle norme che configurano l’Autorità garante per il trattamento dei dati personali si ispira l’articolo 15 nel delineare la figura, i diritti ed i doveri dell’autorità.
L’articolo 16 individua i compiti della nuova Autorità, basandosi sia sui requisiti previsti dalla direttiva 2000/43/CE rispetto agli organismi di parità, sia alle autorità indipendenti già istituite in Europa, tra cui l’Alta Autorità per la lotta contro le discriminazioni francese, l’Ombudsman svedese contro la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, la Commissione generale per la parità di trattamento olandese, l’Autorità per la parità irlandese: l’Autorità italiana avrebbe pertanto simili funzioni di monitoraggio, di diffusione delle informazioni, di formulazione di raccomandazioni e pareri, di elaborazione di riforme legislative, di promozione di studi e ricerche, di definizione ove necessario di azioni positive, di assistenza alle vittime della discriminazione, di comunicazione al Parlamento ed al Governo in merito all’attuazione del principio di parità di trattamento, di decisione sul ricorso amministrativo istituito dal presente disegno di legge.
L’Autorità è dotata di un ufficio, configurato dall’articolo 17 del presente disegno di legge, il cui funzionamento, proprio allo scopo di garantire piena indipendenza, è disciplinato da regolamento approvato dall’Autorità stessa, sul modello delle Autorità garanti. Le norme del presente disegno di legge in materia di disciplina del personale sono allo stesso modo ispirate alle disposizioni già in vigore con riguardo alle Autorità garanti, ivi inclusa la possibilità di avvalersi della consulenza di esperti in materia di lotta alla discriminazione.
L’articolo 18 definisce un nuovo strumento di tutela extragiudiziale per la vittima della discriminazione, rappresentato dal ricorso all’Autorità. L’idea del ricorso si ispira a quanto previsto dalle direttive 2000/78/CE e 2000/43/CE che indicavano l’opportunità di introdurre strumenti di tutela giudiziali ed amministrativi. Con il ricorso all’Autorità si rimedierebbe alla lacuna del legislatore italiano in proposito.
Come indicato all’articolo 19 del presente disegno di legge, il ricorso prevede requisiti minimi di forma, ed è alternativo al ricorso giudiziale (fatta salva la possibilità di agire in giudizio in opposizione al provvedimento dell’Autorità, o al rigetto del ricorso stesso). Allo stesso modo, il procedimento è caratterizzato da particolare speditezza (il ricorso si ritiene rigettato nel caso in cui l’Autorità non provveda entro 45 giorni) e consente alle parti di addivenire ad una soluzione concordata, su proposta del ricorrente ed accettazione della controparte. In assenza di accordo, l’Autorità è investita dei poteri che consentono di svolgere accertamenti e perizie, di sentire le parti, allo scopo di addivenire ad un provvedimento che, come indicato in precedenza, è impugnabile innanzi al tribunale ma, in assenza di opposizione, è obbligatorio per le parti (l’inosservanza è punita con sanzione amministrativa ed è impugnabile innanzi al tribunale). Ove necessario, l’Autorità può assumere provvedimenti temporanei allo scopo di far cessare o rimuovere gli effetti della discriminazione.
In relazione ai poteri dell’Autorità, l’articolo 20 del presente disegno di legge determina le modalità di esecuzione degli accertamenti e delle indagini, su modello dei poteri a riguardo già previsti per l’Autorità garante per il trattamento dei dati personali.
Infine, il capo IV del presente disegno di legge si propone di uniformare le disposizioni di cui al decreto 215 del 2003 sulla discriminazione etnica e razziale a quelle del decreto 216 del 2003. Il legislatore italiano ha infatti seguito uno schema pressoché identico nel delineare i due decreti di attuazione delle direttive comunitarie, con talune differenze, per lo più relative all’ambito di applicazione ed all’organismo di parità, che il presente disegno di legge intende rimuovere. A tale fine, pertanto, gli articoli 22-29 del presente disegno di legge riprendono in modo pressoché speculare le disposizioni previste dal capo II della presente proposta allo scopo di garantire che la disciplina sulla parità di trattamento sia pienamente uniforme indipendentemente dal motivo della discriminazione. Occorre notare che questo è l’orientamento che progressivamente stanno assumendo tutti i paesi dell’Unione Europea e che in un futuro non lontano diverrà con tutta probabilità un obbligo a cui comunque il legislatore italiano si dovrà uniformare con l’evolvere del diritto comunitario.


Capo I
Norme in materia di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere

Articolo 1
Delitti motivati dall’odio

1. All’articolo 3, comma 1, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, le parole: «o religiosi» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosi o fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
2. All’articolo 3, comma 1, lettera b), della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, le parole: «o religiosi» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosi o fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
3. All’articolo 3, comma 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, le parole: «o religiosi» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosi o fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
4. La rubrica dell’articolo 1 del decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, è sostituita dalla seguente: «Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
5. All’articolo 3, comma 1, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, le parole: «o religioso» sono sostituite dalle seguenti: «, religioso, motivata dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere».

Articolo 2
Rispetto per le minoranze nella scuola

1. Nelle scuole di ogni ordine e grado, nell’ambito dei corsi di informazione o di educazione sessuale che si svolgono, anche a titolo sperimentale, così come nel corso dello svolgimento della normale attività didattica, è vietata ogni manifestazione di intolleranza, dileggio, disprezzo, discriminazione o colpevolizzazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, in quanto traumatica o dannosa per lo sviluppo della personalità di scolari o studenti, nonché idonea a favorire il perpetuarsi di pratiche e di atteggiamenti discriminatori o intolleranti.
2. Salvo che il fatto non costituisca reato ai sensi dell’articolo 1 della presente legge, la vittima dei fatti previsti al comma 1 può agire in giudizio per il risarcimento dei danni patrimoniali e morali eventualmente subiti. La tutela giurisdizionale si svolge nelle forme previste dall’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, e successive modificazioni.
3. Del danno risponde direttamente l’istituto scolastico nel quale i fatti si sono verificati, in solido con l’autore dell’atto, comportamento, prassi discriminatori.

Articolo 3
Assicurazioni sanitarie

1. Nell’offerta di contratti di assicurazione sanitaria, nell’invito a proporne la stipulazione e nella loro negoziazione e conclusione sono vietati tutti i riferimenti, anche indiretti, e ogni indagine relativi all’orientamento sessuale o all’identità di genere dell’assicurando o dell’assicurato, qualora ne consegua un aumento dell’entità dei premi o una limitazione delle prestazioni assicurative rispetto a quanto generalmente praticato.
2. La violazione del divieto di cui al comma 1 è punita con la sanzione pecuniaria da 5 mila euro a 50 mila euro.
3. Ai sensi del comma 2 dell’articolo 7-bis del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, sono nulle le clausole dei contratti di assicurazione sanitaria che facciano dipendere, anche indirettamente, dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere dell’assicurato un aumento dell’entità dei premi o una limitazione delle prestazioni assicurative rispetto a quanto generalmente praticato. La nullità di tali clausole non comporta l’invalidità dei contratti che le contengono, la cui durata è prorogata di diritto a tempo indeterminato, salvo recesso o disdetta da parte dell’assicurato. La prescrizione dell’azione per la ripetizione di quanto corrisposto in eccesso dall’assicurato per l’intera durata del rapporto rimane sospesa fino al momento della cessazione del rapporto o fino alla presentazione della domanda di accertamento giudiziale della nullità delle clausole discriminatorie.

Articolo 4
Diritto di asilo e divieto di espulsione

1. Allo straniero che possa essere perseguitato nel proprio Paese a motivo del proprio orientamento sessuale o dell’identità di genere lo Stato italiano riconosce il diritto di asilo nei termini ed alle condizioni previste dalla legge in materia.
2. All’articolo 19, primo comma, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, dopo le parole «di religione, » sono aggiunte le seguenti: «di orientamento sessuale, di identità di genere, ».

Articolo 5
Discriminazione fondata sull’identità di genere

1. Le disposizioni di cui al decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, e successive modificazioni, si applicano altresì alla discriminazione fondata sull’identità di genere.
2. All’articolo 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la parola «orientamento sessuale» sono aggiunte le seguenti: «, sull’identità di genere».

Capo II
Modifiche alle norme d’attuazione della direttiva 2000/78/CE

Articolo 6
Oggetto

1. All’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, le parole: «disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione» sono sostituite dalle seguenti: «disponendo le misure necessarie per la lotta alla discriminazione fondata sui citati fattori».

Articolo 7
Nozione di discriminazione

1. All’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, le parole: « per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi » sono sostituite dalle seguenti: « il principio della parità di trattamento comporta che non sia praticata alcuna »
2. Il comma 4 dell’articolo 2 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
« 4. L’ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale, e la ritorsione a una precedente azione giudiziale ovvero l’ingiusta reazione a una precedente attività del soggetto leso volta a ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento sono considerati discriminazioni ai sensi del comma 1. »

Articolo 8
Ambito di applicazione

1. All’articolo 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale».
2. All’articolo 3 comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, dopo la lettera d) sono aggiunte le seguenti:
« e) protezione sociale, comprese la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria;
f) prestazioni sociali;
g) istruzione;
h) accesso ai beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio. ».
3. Il comma 2 dell’articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
«2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di:
a) condizioni di ingresso, soggiorno e accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato;
b) sicurezza pubblica, tutela dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati e tutela della salute;
c) stato civile e prestazioni che ne derivano;
d) forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap.».
4. Il comma 3 dell’articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
«3. Nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività d’impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento basate su caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».
5. Il comma 4 dell’articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
«4. Sono, comunque, fatte salve le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati in relazione all’età, riguardanti gli adolescenti, i giovani, i lavoratori anziani, e i lavoratori con persone a carico, dettati dalla particolare natura del rapporto di lavoro e dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale».
6. Il comma 5 dell’articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
«5. Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività. Le differenze di trattamento di cui al presente comma non possono comunque giustificare una discriminazione basata su altri motivi».
7. Il comma 6 dell’articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
«6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera b), quelle disposizioni, quei criteri o quelle prassi che siano giustificate oggettivamente da fina¬lità legittime e perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari».

Articolo 9
Tutela giurisdizionale dei diritti

1. Il comma 4 dell’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
«4. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o di comportamenti discriminatori in base alle caratteristiche di cui all’articolo 1, spetta al convenuto l’onere della prova sulla insussistenza della discriminazione».
2. Il comma 6 dell’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
«6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 5, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione o ingiusta reazione previste ai sensi del quarto comma dell’articolo 2.».
3 Dopo il comma 8 dell’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è inserito il seguente:
«8-bis. ‘inottemperanza ai provvedimenti giudiziali di cessazione del comportamento discriminatorio e di rimozione degli effetti della discriminazione comporta il pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo da versarsi a favore dell’Autorità per la Lotta alle Discriminazioni».

Articolo 10
Legittimazione ad agire

1. L’articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:
«Art. 5 (Legittimazione ad agire) — 1. Fatte salve le misure più favorevoli previste dalla legge, le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali comparativamente più rappresentative a livello nazionale e le orga¬nizzazioni e le associazioni che hanno un interesse specifico a intervenire in giudizio in ragione degli interessi che rappresentano sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, in forza di delega rilasciata per iscritto, a pena di nullità, o a suo sostegno, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.
2. Le rappresentanze sociali, le organizzazioni e le associazioni di cui al primo comma sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva, anche nei casi in cui non siano individuabili in modo immediato e diretto le persone lese dalla discriminazione».

Articolo 11
Dialogo sociale e con le organizzazioni non governative

1. Dopo l’articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, come sostituito dall’articolo 11 della presente legge, è inserito il seguente:
«Art. 5-bis (Dialogo sociale e con le organizzazioni non governative). — 1. Allo scopo di sostenere il principio di parità di trattamento, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, in concerto con gli altri ministeri competenti, promuove la consultazione delle parti sociali nonché delle organizzazioni e delle associazioni di cui all’articolo 5.
2. Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali nonché le organizzazioni e le associazioni di cui al comma 1, e di intesa con esse, promuove altresì il monitoraggio delle prassi nei luoghi di lavoro, delle norme contenute nei contratti collettivi di lavoro, nei codici di comportamento nonché ricerche o scambi di esperienze e di buone pratiche e adotta le misure necessarie per assicurare in tali ambiti il rispetto dei requisiti minimi previsti dal presente decreto.
3. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con le associazioni di cui all’articolo 5, ai fini del’applicazione delle norme del presente decreto e dello studio del fenomeno, predispongono centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per le vittime delle discriminazioni fondate su religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale.».

Articolo 12
Diffusione delle informazioni

1. Dopo l’articolo 5-bis del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, introdotto dall’articolo 12 della presente legge, è inserito il seguente:
«Art. 5-ter (Diffusione delle informazioni). — 1. Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, in concerto con gli altri ministeri competenti e d’intesa con l’Autorità per la Lotta alle Discriminazioni, sentite le parti sociali e le organizzazioni e le associazioni di cui all’articolo 5, e d’intesa con esse, adotta le iniziative necessarie alla diffusione delle informazioni sul territorio nazionale, anche mediante campagne informative in particolare sui luoghi di lavoro, allo scopo di assicurare che le disposizioni di cui al presente decreto siano portate all’attenzione dei soggetti interessati.
2. Le iniziative di cui al primo comma sono altresì adottate dalle regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, tramite i centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale previsti dal terzo comma dell’articolo 5-bis del presente decreto ».

Articolo 13
Disposizioni finali

1. Dopo l’articolo 7 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è aggiunto, in fine, il seguente:
«Art. 7-bis (Disposizioni finali). — 1. Sono nulle tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento di cui al presente decreto contenute nei contratti collettivi di lavoro, nei regolamenti aziendali, nei codici di comportamento e nei codici deontologici.
2. Sono altresì nulle, ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile, le clausole contrattuali contrarie alle disposizioni del presente decreto».

Articolo 14
Modifica dell’articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276

1. L’articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, è sostituito dal seguente:
«1. È fatto divieto alle agenzie per il lavoro e agli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di effettuare qualsivoglia indagine o comunque trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso, in base alle convinzioni personali, alla affiliazione sindacale o politica, al credo religioso, al sesso, al’orientamento sessuale, all’identità di genere, allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, alla età, al’handicap, alla razza, al’origine etnica, al colore, alla ascendenza, al’origine nazionale, al gruppo linguistico, allo stato di salute nonché ad eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro.
2. Non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento basate sulle caratteristiche di cui al comma 1, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.
3. È fatto divieto di trattare dati personali dei lavoratori che non siano strettamente attinenti alle loro attitudini professionali e al loro inserimento lavorativo.
4. Le disposizioni di cui ai commi precedenti non possono in ogni caso impedire ai soggetti di cui al primo comma di fornire specifici servizi o azioni mirate per assistere le categorie di lavoratori svantaggiati nella ricerca di una occupazione.».

Capo III
Istituzione dell’Autorità per la Lotta alle Discriminazioni

Articolo 15
L’Autorità per la Lotta alle Discriminazioni

1. L’Autorità opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione.
2. L’Autorità è istituita allo scopo di promuovere la parità di trattamento e di rimuovere le discriminazioni fondate sulla razza, sul’origine etnica, sulla religione, sulle convinzioni personali, sull’handicap, sull’età, sul sesso, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere con funzioni di controllo e garanzia delle parità di trattamento e del’operatività degli strumenti di tutela, ed ha il compito di svolgere, in modo autonomo e imparziale, attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulle cause sopra menzionate, anche in u’ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini.
3. L’Autorità è organo collegiale costituito da quattro componenti, eletti due dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica con voto limitato. I componenti sono scelti tra persone che assicurano indipendenza e che sono esperti di riconosciuta competenza delle materie del diritto o della parità di trattamento, garantendo la presenza di entrambe le qualificazioni.
4. I componenti eleggono nel loro ambito un presidente, il cui voto prevale in caso di parità. Eleggono altresì un vicepresidente, che assume le funzioni del presidente in caso di sua assenza o impedimento.
5. Il presidente e i componenti durano in carica quattro anni e non possono essere confermati per più di una volta; per tutta la durata del’incarico il presidente e i componenti non possono esercitare, a pena di decadenza, alcuna attività professionale o di consulenza, né essere amministratori o dipendenti di enti pubblici o privati, né ricoprire cariche elettive.
6. Al’atto del’accettazione della nomina il presidente e i componenti sono collocati fuori ruolo se dipendenti di pubbliche amministrazioni o magistrati in attività di servizio; se professori universitari di ruolo, sono collocati in aspettativa senza assegni ai sensi del’articolo 13 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, e successive modificazioni. Il personale collocato fuori ruolo o in aspettativa non può essere sostituito.
7. Al presidente compete una indennità di funzione non eccedente, nel massimo, la retribuzione spettante al primo presidente della Corte di cassazione. Ai componenti compete u’indennità non eccedente nel massimo, i due terzi di quella spettante al presidente. Le predette indennità di funzione sono determinate dal’articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1998, n. 501, in misura tale da poter essere corrisposte a carico degli ordinari stanziamenti.
8. Alle dipendenze dell’Autorità è posto ‘Ufficio di cui al’articolo.

Articolo 16
Compiti

1. L’Autorità, anche avvalendosi del’Ufficio e in conformità alla presente legge, ha il compito di:
a) fornire assistenza, nei procedimenti giurisdizionali intrapresi, alle persone che si ritengono lese da comportamenti discriminatori, anche secondo le forme di cui al’articolo 425 del codice di procedura civile;
b) svolgere, nel rispetto delle prerogative e delle funzioni del’autorità giudiziaria, inchieste al fine di verificare ‘esistenza di fenomeni discriminatori;
c) promuovere ‘adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in particolare da parte delle organizzazioni e delle associazioni portatrici di interessi legittimi, di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare le situazioni di svantaggio connesse alle cause di discriminazione di cui al secondo comma dell’articolo 16;
d) diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela vigenti anche mediante azioni di sensibilizzazione del’opinione pubblica sul principio della parità di trattamento e la realizzazione di campagne di informazione e comunicazione;
e) formulare raccomandazioni e pareri su questioni connesse alle cause di discriminazione di cui al secondo comma dell’articolo 16, nonché proposte di modifica della normativa vigente;
f) redigere una relazione annuale per il Parlamento sul’effettiva applicazione del principio di parità di trattamento e sul’efficacia dei meccanismi di tutela, nonché una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei Ministri sul’attività svolta;
g) promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, in collaborazione anche con le associazioni portatrici di interessi legittimi, con le altre organizzazioni non governative operanti nel settore e con gli istituti specializzati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida in materia di lotta alle discriminazioni;
h) denunciare i fatti configurabili come reati perseguibili ‘ufficio, dei quali viene a conoscenza nel’esercizio o a causa delle funzioni;
i) esaminare le segnalazioni e provvedere sui ricorsi presentati dagli interessati o dalle associazioni che li rappresentano;
l) esprimere pareri nei casi previsti.
2. Il Presidente del Consiglio dei ministri e ciascun ministro consultano l’Autorità al’atto della predisposizione delle norme regolamentari e degli atti amministrativi suscettibili di incidere sulle materie di competenza dell’Autorità stessa.
3. Fatti salvi i termini più brevi previsti per legge, il parere dell’Autorità è reso nei casi previsti nel termine di quarantacinque giorni dal ricevimento della richiesta. Decorso il termine, ‘amministrazione può procedere indipendentemente dal’acquisizione del parere. Quando, per esigenze istruttorie, non può essere rispettato il termine di cui al presente comma, tale termine può essere interrotto per una sola volta e il parere deve essere reso definitivamente entro venti giorni dal ricevimento degli elementi istruttori da parte delle amministrazioni interessate.

Articolo 17
L’Ufficio dell’Autorità

1. Al’Ufficio dell’Autorità, al fine di garantire la responsabilità e ‘autonomia ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, si applicano i principi riguardanti ‘individuazione e le funzioni del responsabile del procedimento, nonché quelli relativi alla distinzione fra le funzioni di indirizzo e di controllo, attribuite agli organi di vertice, e le funzioni di gestione attribuite ai dirigenti.
2. Al’Ufficio dell’Autorità è preposto un segretario generale scelto anche tra magistrati ordinari o amministrativi.
3. Il ruolo organico del personale dipendente è stabilito nel limite di novanta unità.
4. Con propri regolamenti pubblicati nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, l’Autorità definisce:
a) ‘organizzazione e il funzionamento del’ufficio anche ai fini dello svolgimento dei compiti di cui al’articolo 17, tenuto conto delle specifiche esigenze relative alle singole cause di discriminazione;
b) ‘ordinamento delle carriere e le modalità di reclutamento del personale secondo le procedure previste dal’articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165;
c) la ripartizione del’organico tra le diverse aree e qualifiche;
d) il trattamento giuridico ed economico del personale, secondo i criteri previsti dalla legge 31 luglio 1997, n. 249, e successive modificazioni e, per gli incarichi dirigenziali, dagli articoli 19, comma 6, e 23-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, tenuto conto delle specifiche esigenze funzionali e organizzative. Nelle more della più generale razionalizzazione del trattamento economico delle autorità indipendenti, al personale è attribuito il medesimo trattamento economico del personale del’Autorità garante per la protezione dei dati personali;
e) la gestione amministrativa e la contabilità, anche in deroga alle norme sulla contabilità generale dello Stato, ‘utilizzo del’avanzo di amministrazione nel quale sono iscritte le somme già versate nella contabilità speciale, nonché ‘individuazione dei casi di riscossione e utilizzazione dei diritti di segreteria o di corrispettivi per servizi resi in base a disposizioni di legge secondo le modalità di cui al’articolo 6, comma 2, della legge 31 luglio 1997, n. 249.
5. ‘ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato, in posizione di comando, aspettativa o fuori ruolo. Si applica ‘articolo 17, commi 14 e 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127.
6. In aggiunta al personale di ruolo, ‘ufficio può assumere direttamente dipendenti con contratto a tempo determinato, in numero non superiore a venti unità ivi compresi il personale di cui al quinto comma ed i consulenti di cui all’ottavo comma.
7. Si applicano le disposizioni di cui al’articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
8. Nei casi in cui la natura tecnica o la delicatezza dei problemi lo richiedono, l’Autorità può avvalersi di esperti e consulenti esterni, i quali sono remunerati in base alle vigenti tariffe professionali ovvero sono assunti con contratti a tempo determinato, di durata non superiore a due anni, che possono essere rinnovati per non più di due volte.
9. Gli esperti di cui all’ottavo comma sono scelti tra soggetti, anche estranei alla pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nonché nei settori della lotta alle discriminazioni, del’assistenza materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e del’analisi delle politiche pubbliche.
10. Il personale addetto al’Ufficio dell’Autorità ed i consulenti sono tenuti al segreto su ciò di cui sono venuti a conoscenza, nel’esercizio delle proprie funzioni, in ordine a notizie che devono rimanere segrete.
11. Il personale del’Ufficio dell’Autorità addetto agli accertamenti di cui al’articolo 21 riveste, in numero non superiore a cinque unità, nei limiti del servizio cui è destinato e secondo le rispettive attribuzioni, la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria.
12. Le spese di funzionamento dell’Autorità sono poste a carico di un fondo stanziato a tale scopo nel bilancio dello Stato e iscritto in apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero del’economia e delle finanze. Il rendiconto della gestione finanziaria è soggetto al controllo della Corte dei conti.

Articolo 18
Tutela dinanzi all’Autorità

1. L’interessato, persona fisica o giuridica, può rivolgersi all’Autorità mediante ricorso allo scopo di:
a) rappresentare una violazione della disciplina in materia di parità di trattamento
b) sollecitare un controllo da parte dell’Autorità sulla


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