Anna, due papà e un album con tante fotografie

  

ROMA — Tobia sognava da sempre di diventare padre. Marco, invece, non ci aveva mai pensato. «Quando sei gay e adolescente negli anni ’80 — dice ridendo — quello che potevi immaginarti era di passare la vita nei parchi, tra incontri occasionali». Ma oggi è diverso. Così, nel 2008, alla fine di quattro piani senza ascensore, la coppia apre la porta di casa ai cronisti tenendo in braccio Anna, capelli castani e due occhi nerissimi, due anni fra qualche settimana. Una bimba con due papà («Pa-tò e Papà-co» come li chiama lei), nata grazie all’aiuto di due donne, una donatrice (che ha dato i propri ovuli) e una portatrice che l’ha cresciuta in grembo in California dove anche le coppie omosessuali possono ricorrere alla maternità surrogata. La pratica in Italia è illegale e parlarne apertamente è ancora un tabù. Per questo i due uomini, entrambi insegnanti, socialmente impegnati, uno di loro è scrittore e conduttore radiofonico, preferiscono raccontare la loro storia rimanendo nell’anonimato. «Lo facciamo per proteggere Anna — spiegano —. Non vogliamo che sia al centro dell’attenzione».

L’appartamento, tre stanze e soggiorno, a ridosso delle mura aureliane, è di quelli senza pretese. Pochi mobili e un’infinità di libri, stipati negli scaffali. Per terra, sparsi un po’ ovunque, i giochi della bambina. «Ho dovuto faticare un po’ a convincere Marco — racconta Tobia, 43 anni, un viso da bambino invecchiato dai capelli bianchi —. Abbiamo cominciato a parlarne dopo 4 o 5 anni di rapporto, verso il ’98-’99». «Maggio 99», puntualizza subito l’altro, 42 anni, capelli neri e carnagione mediterranea. «All’inizio — spiega — la reazione era di perplessità. Quando abbiamo scelto la strada delle agenzie americane il dubbio maggiore era l’idea di avere un bambino passando attraverso una transazione economica». «Per me — interviene Tobia — è stato importante il fatto che venisse comprato un servizio, non un figlio. Paghi anche se, per qualunque motivo, il bambino non nasce». Il costo è alto. Centoventimila dollari.

La priorità per entrambi è evitare di sfruttare un’altra persona. «Sapevamo che non ci avrebbero proposto donne senza figli o in una situazione di bisogno. Abbiamo compilato questionari molto molto complicati, con quello che cercavamo, le nostre esigenze, le nostre opinioni e convinzioni». La prima candidata viene scartata. Poi l’incontro con Jane, 38 anni, quattro figli e il desiderio di aiutare una coppia gay. «Quando le abbiamo parlato la prima volta ci è subito piaciuta, era con il suo compagno e per tutto il tempo è stata sostenuta dalla sua famiglia. Con i soldi della surrogacy ha seguito un corso di specializzazione per avanzare nel suo lavoro di infermiera professionale».

Per la donatrice, che nessuno dei due ha incontrato, ci si è affidati un po’ all’istinto. «Abbiamo scelto su un catalogo in base alla simpatia che ci ispirava… e poi l’italianità. La faccia che fosse più mediterranea». Marco: «Ci è piaciuto che lei parlasse di politica. E poi la disponibilità a incontrare Anna se un giorno vorrà scoprire la sua storia». Il padre biologico è Tobia — quegli occhi non ingannano — ma la decisione è stata meditata. «All’inizio — dice — abbiamo fatto un po’ Oreste e Pilade: "fallo tu, no fallo tu"». «A un certo punto — interviene Marco — siamo arrivati ai fogliettini». Cioè? «Cartoncini con su scritto "Marco" o "Tobia": e poi l’estrazione a sorte. Non serviva a scegliere, ma a vedere chi ci rimaneva più male. Alla fine era Tobia. L’agenzia permette anche di mischiare lo sperma, per non sapere chi sia il padre, ma per una forma di chiarezza abbiamo rifiutato ». «E poi — conclude Tobia — penso che non ci rendessimo conto di quanto sarebbe stata figlia di tutti e due». Certo, in Italia, Marco resterà sempre un estraneo per Anna di fronte alla legge. Solo in California, grazie a una sentenza del tribunale di San Diego, entrambi risultano come padri. «Se un giorno morissi — scherza Tobia — Marco potrebbe scappare in America».

Il rapporto con la madre surrogata e con la sua famiglia è stato molto profondo e continua ancora oggi. Quando Jane è rimasta incinta, nel 2005, la coppia era in California e ci è tornata a Natale per l’ecografia. «Per i mesi della gravidanza — aggiunge Tobia — avevamo preparato delle cassette con le nostre voci, che Anna poteva sentire quando era ancora nell’utero. A marzo siamo tornati per il parto e in sala c’eravamo noi, la madre e la cognata. Abbiamo tagliato il cordone ombelicale e siamo stati i primi a prenderla in braccio». «Lei — dice Tobia — non l’ha allattata, è uscita quasi subito dall’ospedale, noi siamo rimasti lì due notti in una stanza con Anna». Dopo 18 giorni un aereo intercontinentale, l’arrivo a Roma e la registrazione allo stato civile. Sul certificato di nascita americano ci sono i nomi di Tobia e di Jane, anche se lei ha rinunciato a ogni diritto sulla bambina.

Oggi la vita di entrambi ruota intorno alle esigenze della piccola. Tobia insegna in un corso serale, Marco al mattino. Mai presa una baby sitter. Una routine da famiglia «normale », perfettamente accettata dagli altri. «Ai nostri genitori — dice Tobia — non l’abbiamo detto finché non è stato tutto pronto. E sono stati entusiasti». «Anche i vicini — aggiunge Marco —, quelli con cui i rapporti erano un po’ più freddi, si sono inteneriti». Quando sarà più grande, Anna saprà come è nata. «Le diremo — spiega Tobia — che ci sono delle signore che ci hanno aiutato ad averla. E stiamo preparando un quadernone ad anelli con la sua storia e le foto (lei nell’ecografia, Jane incinta). Se poi ci contesterà ben venga. Siamo entrambi insegnanti e sappiamo come funziona l’adolescenza».


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