È l’unico cognome italiano sul citofono. Via Monterosa, vecchia casa di Barriera, odori che si mischiano: aglio, pesci fritti, menta. È l’ora di cena. Interno cortile. Le finestre sono spalancate sui fatti degli altri. Alle otto di lunedì sentono urlare dalla cucina degli italiani. Insulti al secondo piano. Un ragazzino, 16 anni, piange. Poi grida anche lui. Volano piatti. Minacce, botte. La situazione sta degenerando. Qualcuno chiama i carabinieri.
La prima segnalazione parla genericamente di una «lite animata in famiglia». Un intervento banale, ogni giorno ce ne sono tanti. Arriva un equipaggio del nucleo radiomobile. I militari salgono, vanno a vedere. La situazione in effetti è ancora molto tesa. Padre contro figlio. E viceversa. Ma dietro quella lite in famiglia, scoprono, dopo aver parlato con entrambi, c’è un motivo particolare. «Gli ho detto che sono omosessuale», ha spiegato il ragazzino. «Lui lo sa benissimo, ma non vuole accettarlo». Il padre conferma. La madre piange nell’angolo. I carabinieri fanno tornare la calma. Verificano che nessuno si sia ferito seriamente. Solo qualche livido, escoriazioni, rabbia viva. Non ci sono gli estremi per denunciare qualcuno. Spiegano che si può «procedere solo con una querela di parte».
Il giorno dopo il clima in via Monterosa è ancora teso. Un vicino racconta: «È la seconda volta in pochi giorni che devono intervenire le forze dell’ordine. Anche la polizia è stata al secondo piano. I rapporti con quel ragazzino sono molto tesi».
Il padre, origini pugliesi, faccia pallida da chi ha lavorato tutto agosto, è un uomo di cinquant’anni. Fa il muratore. Scende a parlare, molto provato: «Non è successo niente. Sono fatti nostri. Questa storia non deve uscire da qui». Il fratello maggiore, 19 anni, è sulla stessa lunghezza d’onda: «Non c’è niente da dire, nulla di nulla. Niente da spiegare. Cose nostre. Altrimenti finisce male».
Forse il ragazzino vorrebbe dire la sua. Ma non esce di casa per tutta la mattina. La madre chiude le persiane sul ballatoio: «Sono fatti di famiglia. È un brutto dolore, lasciateci stare».
Non è possibile conoscere dal diretto interessato questa storia. Anche il telefono di casa squilla a vuoto. Nessuno risponde.
«È un ragazzino basso di statura, timido, molto gentile – dice un vicino – va a scuola, studia, passa i pomeriggi ai giardinetti qui dietro». Non ieri. Non dopo le botte in casa. «Sono gay – ha detto – voglio soltanto essere accettato». Ma il padre si opponeva, prima a parole, poi come una furia, come se fosse una decisione negoziabile.
Ai giardini lo conoscono quasi tutti. Sulle panchine qualcuno ha fatto alcune scritte sul tema: «… è frocio». Ma anche qui non è facile trovare persone che abbiano voglia di parlare dell’argomento. «Il padre soffre tantissimo per questa storia, lasciatelo perdere. È una vera disgrazia».
Per fortuna nel palazzo abita Rachid, un ragazzo marocchino di 25 anni. Lui ha capito benissimo quello che sta succedendo, anche senza bisogno di spiegazioni. «L’altra sera ho sentito il litigio. Non è la prima volta che succede. Ma è stato particolarmente violento. Ce l’hanno con il figlio minorenne. Per me è un bravissimo ragazzino, un tipo a posto, simpatico, qui gli vogliamo tutti bene. Ma ho sentito troppa rabbia in quella casa, non è giusto. Il piccolo italiano non va lasciato solo».