L’appello di Matteo

  

APPELLO PER LE PARI OPPORTUNITà DELLA COMUNIT' LGBT

Matteo Pegoraro

Matteo Pegoraro

di Matteo Pegoraro
Segretario e responsabile attività giovanili e culturali
di Arcigay Firenze “Il Giglio Rosa”

AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
AI PARLAMENTARI ITALIANI
ALLE ISTITUZIONI ITALIANE
ALLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
ALLE RAPPRESENTANZE CATTOLICHE ITALIANE
AGLI ORGANI DI STAMPA
AI RAPPRESENTANTI DELLE ASSOCIAZIONI LGBT E PER LA DIFESA DEI DIRITTI UMANI E CIVILI
ALLE PERSONALITA’ DEL MONDO DELLO SPETTACOLO E DELLA CULTURA ITALIANA

DICO che c’è da avere paura. Ho ventun anni e per la prima volta ho davvero paura. Da giovane omosessuale ho paura di cosa mi aspetta. E se ripenso a cosa è stato nel passato lo sterminio di migliaia di omosessuali — e dell’attuale condizione in cui siamo, a discutere ancora di minaccia alla famiglia tradizionale, fondata sul matrimonio (ma non sarebbe meglio a questo punto dire sulla procreazione?) — mi viene davvero da credere che verremo di nuovo emarginati e stipati nei nostri “ghetti” moderni e considerati di nuovo malati, di nuovo oggetto di scherno, di violenza, di privazione della nostra dignità. Certo, sembrerà esagerato e sconnesso come pensiero; sembrerà ipocrita, forse, per chi — come i nostri Ministri — è convinto di averci dato fin troppo, di averci fatto un favore, di avere soddisfatto non solo le nostre richieste ma anche e soprattutto le nostre esigenze da cittadini di uno Stato che a quasi sessantun anni dalla proclamazione della Repubblica seguita a non riconoscerci, o a riconoscerci come una “minoranza” da non tutelare né considerare.

Dovrebbero — e avrebbero dovuto — far pensare le ripetute aggressioni e violenze che avvengono in tutta Italia nei confronti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender; e così lo straziante suicidio-protesta del siciliano Alfredo Ormando, omosessuale bruciatosi vivo in San Pietro nel ’98 nella speranza di poter cambiare le cose per noi LGBT; e, ancora: il recente stupro di Paola perché lesbica; il brutale assassinio nel ‘98, da parte di due uomini, del sedicenne americano Matthew Wayne Shepard perché gay; il ventiquattrenne di Cortina d’Ampezzo Stefano Walpoth, toltosi la vita lo scorso anno con un colpo di pistola pochi giorni dopo aver confessato ai genitori il proprio orientamento sessuale; l’impiccagione pubblica e barbaramente legale di due giovani sedicenni omosessuali in Iran, il 19 luglio 2005. Dovrebbero — e avrebbero dovuto — far sussultare ogni persona dotata di un cuore, e così far urlare a squarciagola il disdegno, lo strazio e il forte senso di rabbia di fronte a simili tragedie alimentate dall’ignoranza e dall’omofobia. E, invece, ancora oggi, nel febbraio del 2007, sentiamo la CEI e gran parte dei politici italiani inorridire di fronte a un disegno di legge — i DICO, per l’appunto — che riconoscono le unioni amorose tra noi omosessuali come un legame tra “due persone maggiorenni e capaci, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale”. Ci sentiamo definire nuovamente “minoranza”, nuovamente “minaccia”, nuovamente “apocalisse di Dio”. Sentiamo definire i nostri sentimenti e i nostri legami “deboli” e “sterili”. Ci vediamo di nuovo additati per strada; visti come appestati se ci teniamo per mano o ci scambiamo una carezza. Sì, DICO che c’è da avere paura. Non distrugge forse l’amore e la Famiglia il senso di odio che, più che mai consapevolmente, la Chiesa e i politici — di destra e di sinistra, cattolici e non — stanno propagandando nell’opinione pubblica per fermare una legge — per quanto mal costruita e ben poco rappresentativa — che proponga un riconoscimento minimo a due persone dello stesso sesso che si amano e pretendono solamente di assistersi e tutelarsi reciprocamente, con doveri e diritti comuni?

Io convivo da un anno e mezzo con il mio compagno. Insieme, ogni giorno, affrontiamo situazioni imbarazzanti e scomode, perché abbiamo deciso di non negare il nostro amore agli occhi degli altri, di non nasconderci, di non rinunciare — nonostante spesso possa venirci spontaneo di fronte a determinati atteggiamenti — a provare a vivere la nostra vita in libertà. E non è facile, giorno dopo giorno, affrontare gli sguardi interrogatori e quasi turbati di persone comuni, per strada, in un bar o al supermercato, che vedono due ragazzi tenersi per mano, scambiarsi uno sguardo ricco d’amore, darsi un bacio sulle labbra per salutarsi in vista di una giornata pesante da affrontare.

A sedici anni mi sono forse reso conto davvero che ero omosessuale; cominciavo a provare non più solo attrazione ma anche un forte sentimento verso una persona del mio stesso sesso. Ricordo le giornate passate in penombra in camera mia, quando ancora vivevo con i miei genitori, con il cuscino ficcato sulla faccia per soffocare un pianto strozzato; ricordo ancora le prese in giro dei compagni di classe maschi, a volte, che io accettavo col sorriso in volto — e anche un po’ nel cuore —, ma che avrebbero potuto ferire, anche in profondità, chi non fosse stato in grado di affrontare serenamente certi attacchi. Ricordo anche il terrore con cui mi svegliavo nella notte, sudato fradicio dalla testa ai piedi e con le palpitazioni accelerate, dopo l’incubo di aver raccontato a mio padre e a mia madre della mia omosessualità. Rimanevo sveglio fino alle 6 del mattino, quando mi dovevo alzare per andare a scuola, a contemplare il nulla e a pregare, perché ciò che il mio inconscio aveva ipotizzato non si realizzasse mai.

Un giorno, invece, si è realizzato. E dall’altra parte ho trovato la comprensione di due genitori eccezionali, fortunatamente, che, seppure con qualche plausibile difficoltà, mi hanno accettato e hanno accolto a cuore aperto il mio compagno, me e la mia “diversità”.

Ma, ripeto, io sono stato fortunato, e non poco. Esistono storie di ragazze e ragazzi ben più tragiche, per cui un sorriso o una pacca sulla spalla non bastano a lenire il dolore di un distacco profondo con i genitori, o con un’amica o un amico, in seguito al proprio coming out. Esistono ferite e traumi ben più pesanti di un cuscino ficcato in faccia e di un incubo che ti corrode la coscienza, e non è certo compito mio testimoniarlo: lo fanno già le quotidiane pagine di cronaca delle associazioni LGBT e non, che denunciano la violenza e il disagio di migliaia e migliaia di persone che non vengono integrate e accettate nella nostra società.

Ma per i Monsignori e i Cardinali, per coloro che interpretano il messaggio cristiano secondo le loro vedute, per i teodem, per il nostro papa Benedetto XVI, per la destra e la finta sinistra italiana, noi lesbiche, gay, bisessuali e transgender rischiamo di mettere in serio pericolo la Famiglia. Siamo un cancro da arginare prima che la metastasi prenda il sopravvento. E dunque si organizzano sedute straordinarie, discussioni, prediche, moniti, mentre intorno a tutto ciò c’è ancora chi soffre, piange e si dispera; chi decide di dire addio alla vita perché non ce la fa più a sopportare; chi, in casa con i propri genitori, si tortura psicologicamente per non far trasparire uno sguardo o un pensiero equivocabile; chi viene buttato in mezzo a una strada da un padre inferocito e ferito nel suo orgoglio maschile, o da una madre che non riesce a sopportare l’idea di avere in casa una figlia o un figlio “contro natura”. C’è ancora chi non vuole arrendersi e continua a lottare, e testimonia con la propria forza e il proprio coraggio ciò che sente dentro.

DICO che dopo anni e anni di lotte, di manifestazioni, di pride passati dai media agli occhi della gente come carnevalate, di spargimenti di odio e sangue che continuano a macchiare indelebilmente la nostra storia sociale, di candele che si affievoliscono o si spengono per il giudizio e il pregiudizio, forse è l’ora di finirla. E’ l’ora di smettere di strumentalizzare la parola di Dio per giustificare questa crociata. Come comunità LGBT chiedevamo dei diritti — e dei doveri, si badi bene! — che garantissero un riconoscimento sociale alle nostre unioni amorose e tutelassero la nostra quotidianità: non chiedevamo la Luna, né ledevamo qualcun altro nella sua libertà; speravamo in una legge che ci desse la possibilità di essere integrati come cittadini, con tutti gli obblighi e le conseguenze che questo status avrebbe comportato. Chiedevamo che ci fosse permesso di assistere la nostra compagna o il nostro compagno di vita (ed essere assistiti) — “moralmente e materialmente”, sì — quando la salute avrebbe impedito il normale decorso di vita di entrambi, e come risposta c’è stato un DICO. Sì, un “dico sì” o “dico no” alla nostra richiesta di assistere e visitare la persona con cui condividiamo l’esistenza, pronunciato da un medico che, a seconda del proprio umore o della propria visione mentale (e spirituale, aggiungo), è favorevole o meno che tu stringa la mano a chi ami per testimoniargli il tuo amore e la tua vicinanza.

Siamo nelle mani degli altri, e come cittadini di serie B dobbiamo sperare affinché chi ci curerà o curerà il nostro partner sia comprensivo e riconosca che la nostra salute dipende anche dalla vicinanza di chi fino a quel momento, da mattina a sera, ci è stato accanto, ci ha riempito la vita di emozioni, belle e meno belle, di ricordi, di sospiri e brividi straordinari in grado di lenire ogni preoccupazione. Eppure questo sembra minacciare, sempre secondo i timori dei sopraccitati “nemici” delle unioni civili, due persone eterosessuali con la volontà di concepire un bambino, di educarlo e di crescerlo con amore. Ma forse clericali e non, cattolici e non, — omofobi e transfobici — non sanno che da quella unione eterosessuale e da quell’educazione fatta di amore e attenzioni potrebbe crescere una figlia lesbica o bisessuale, o un figlio gay o bisessuale, o un figlio transgender. Ignorano che potrebbe essere proprio il frutto di quell’unione a dover sortire le conseguenze della discriminazione, del bullismo, dell’esclusione sociale e familiare. Ignorano che potrebbe essere proprio il frutto di quell’unione a decidere, un giorno, di recarsi in piazza San Pietro a Roma, riversarsi addosso una tanica di benzina e accendersi come una torcia da giardino, e lasciare che quel fuoco purificatore che per troppi secoli ha lacerato anime proprio per ordine della Chiesa cattolica scalfisca anche la più profonda ferita interiore dettata dall’indifferenza e dallo scherno dei più.

DICO che ci sono mille altri aspetti del disegno di legge Bindi-Pollastrini che ci ridicolizzano e discriminano, e invito a visitare il sito di Arcigay (www.arcigay.it) per avere un’idea di quelle che sono le dieci modifiche sostanziali e più impellenti da apportare al testo prima di un’eventuale discussione.

DICO anche al cardinale Camillo Ruini che Dio ci insegna ad amare e ad accogliere, e, da credente, che sono disponibile a un incontro sereno e costruttivo con lui e con tutti coloro che siano disposti a un dialogo e a un confronto pacifico su questi temi, per cercare per lo meno di comprendere le loro posizioni e di portare la mia testimonianza e la mia assoluta volontà di non incrinare alcun fondamento cristiano nel pretendere un sacrosanto diritto alla libertà.

CHIEDO, da cittadino italiano maggiorenne e capace, a tutte e tutti coloro che leggeranno questo testo, al mondo della Stampa, ai parlamentari, alle Istituzioni, ai rappresentanti di associazioni LGBT e non, a personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura italiana, a coloro che si battono quotidianamente perché vengano riconosciuti i diritti primari dell’uomo, alla base della Dichiarazione Universale adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, di sostenere, con chiare prese di posizione, tutta la comunità lesbica, gay, bisessuale e transgender che mai come in questi momenti sta vedendo i propri diritti intaccati dal dilagante senso di pregiudizio e viene ingiustamente esclusa dagli articoli 1 e 2 della suddetta Dichiarazione, che affermano:

Articolo 1. Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 2. 1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. 2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.

Infine, auspico che lo Stato italiano, nella figura delle sue più alte cariche rappresentative, voglia applicare pienamente e quanto prima gli articoli di cui sopra per non venire meno a un accordo internazionale che sta alla base — e regola i rapporti — della nostra Società Civile.

Matteo Pegoraro
Firenze


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