OLTRE IL RICATTO: È POSSIBILE UN DIRITTO ALLA SALUTE SENZA ESSERE PATOLOGIZZAT*?

  

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Intervento di Arcigay Rete Trans* sulle decisioni prese dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) in materia di farmaci per le persone trans* 

L’iscrizione di farmaci per la transizione da sempre utilizzati off-label (cioè per un’indicazione terapeutica diversa da quella per cui erano stati registrati) nell’elenco previsto dalla Legge 648/1996 che consente di erogarli a carico del Servizio Sanitario Nazionale e contestualmente li rende di fatto in-label, è il segnale che qualcosa almeno si muove sulla strada per garantire alle persone trans il diritto alla salute. Finalmente i farmaci di cui abbiamo bisogno sono “ufficialmente” pensati anche per noi e ci viene riconosciuto un bisogno di salute che merita la loro gratuità. La prescrivibilità in-label per “incongruenza di genere” e la gratuità sono certamente di per sé buone notizie.

Tuttavia non possiamo nascondere la nostra perplessità per il vuoto di ragionamento politico intorno a questa vicenda. Il modo in cui si è deciso di garantire, almeno parzialmente, il diritto alla salute delle persone trans mette un grosso punto di domanda sia sullo stato della battaglia per la depatologizzazione in Italia, sia sulla visione di sistema relativa alle condizioni concrete di esercizio del diritto stesso.

Innanzitutto le determine AIFA si richiamano chiaramente ad una diagnosi di “disforia di genere” (DSM5) o di “incongruenza di genere” (ICD-11), ma la differenza tra le due non è nominalistica, è sostanziale. L’incongruenza di genere è riconosciuta genericamente come “una condizione di salute sessuale”, la cui modalità di accertamento non è codificata dall’ICD11, mentre la disforia di genere è una diagnosi psichiatrica il cui accertamento passa per una valutazione specialistica psichiatrica o psicologica. Non comprendiamo perché si sia ritenuto di citare, nella determina AIFA, il DSM-5 che per noi attivist* è da superare, anziché fare riferimento al solo ICD che è il sistema di classificazione internazionale usato nel nostro sistema sanitario e che, nell’ultima versione, è frutto di una battaglia proprio del movimento di de-patologizzazione.

Forse perché l’ultima versione de-patologizzante dell’ICD non è ancora veramente in uso in Italia? Ma i precedenti equivalenti classificatori ci sono comunque e sono in uso e se la battaglia politica sul sistema sanitario deve essere, che sia almeno sull’introduzione dell’ICD11 con le sue implicazioni. O forse perché le “associazioni di malati e società scientifiche” (come recita la legge) che hanno proposto l’inserimento dei nostri farmaci nell’elenco della Legge 648/1996, hanno presentato ad AIFA documentazione centrata su dati scientifici e protocolli medici facenti riferimento al modello patologizzante? Avremmo preferito una maggiore trasparenza nella negoziazione con AIFA e nella procedura di iscrizione dei farmaci nell’elenco della 648, trattandosi di qualcosa di tecnicamente e politicamente rilevante che meritava, quantomeno, una consapevolezza collettiva. Ci rendiamo conto della difficoltà di rivendicare percorsi medicalizzati gratuiti senza la “consolidata e convenzionale” individuazione di una origine patologica riconosciuta dal modello psichiatrico dominante, ma non è un risultato impossibile se lo si persegue tutt* insieme con trasparenza.

Ci sono esperienze di introduzione di modelli più affermativi e meno patologizzanti basati sul consenso informato nei percorsi di medicalizzazione di altri sistemi sanitari, non solo nei sistemi legali. La stessa discussione sull’ICD11 ha mostrato che c’è la possibilità di guardare al diritto alla salute svincolandolo dall’individuazione di una patologia psichiatrica e collegandolo comunque ad una condizione medica legata al corpo. È certamente un cambio di paradigma radicale, ma se non affrontiamo le radici culturali che informano i presupposti dei sistemi sanitari e dei loro corollari, anziché assecondarli acriticamente, riprodurremo all’infinito quel modello di oppressione che ci ha limitato per anni.

In secondo luogo non è affatto certo che queste determine garantiscano un equo e diffuso accesso all’opportunità offerta, per come sono state scritte.  Per due ragioni: innanzitutto perché obbligano a processi di diagnosi e di prescrizione allo stesso tempo troppo definiti e troppo vaghi, di cui a nostro parere non c’era bisogno, e secondo perché presuppongono un sistema nazionale a garanzia della salute di persone trans che non c’è. Sul primo punto, il non meglio definito richiamo a “team multidisciplinari” e alla “comprovata esperienza” dice e non dice, con il risultato che non sappiamo esattamente quante e quali siano queste multi-discipline, come debbano essere costruite le relazioni di questi team, e quale sia questa comprovata esperienza che interpretata in modo restrittivo di fatto impedirebbe lo sviluppo stesso dei servizi sul territorio. Il secondo punto consegue: ci si è posti il problema di non far “pagare”, economicamente e umanamente, alle persone trans l’inadeguatezza del servizio sanitario nazionale (e regionale) e il pendolarismo terapeutico a cui sono costrette da una parte all’altra del Paese?

La lettera della L.648/96 in generale dice che la prescrizione deve essere fatta da strutture ospedaliere, da cui evinciamo che a prescrivere potranno essere specialisti, immaginiamo endocrinologi, interni a queste strutture. Ci può anche andare bene il riferimento a specialisti del servizio pubblico, ma i team multidisciplinari di comprovata esperienza? Non solo dobbiamo rivolgerci a “chi l’ha visto” per trovarli su tutto il territorio nazionale, ma soprattutto ci rifiutiamo di immaginarli in modo rigido e restrittivo, perché in tal caso sarebbero la tomba di ogni speranza di sviluppare e garantire un diritto alla salute diffuso su tutto il territorio nazionale e ritagliato sui bisogni della persona.

Vogliamo quindi volgere in positivo questa novità, ritenendo maggiormente adeguata un’interpretazione orientata a garantire il diritto alla salute a tutte le persone trans in tutto il Paese: auspichiamo, e per parte nostra ci batteremo per questo risultato, affinché in ogni provincia del Paese specialisti prescrittori si attivino sui singoli territori per avviare quei sistemi di relazioni locali tra specialisti in grado di garantire il diritto alla salute alle persone trans, sia in termini di accertamento della condizione di “incongruenza di genere” sia in termini di prescrizione. In questo senso, riteniamo anche che il Sistema Sanitario Nazionale non possa più esimersi dalla necessità urgente di iscrivere tra i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) i percorsi terapeutici delle persone trans, per mettere finalmente fine all’increscioso pendolarismo terapeutico a cui sono costrette. Per quanto possibile, ci batteremo affinché questi percorsi terapeutici siano definiti confrontandosi anche con le esperienze di altri sistemi sanitari che hanno introdotto modelli affermativi basati sul consenso informato.

Infine, per quanto riguarda la dispensazione dei farmaci, ci batteremo affinché questa sia garantita non solo e non tanto dal servizio farmaceutico delle strutture prescrittrici, ma soprattutto, come ci sembra sia previsto anche dalla stessa L. 648/1996, dalservizio farmaceutico dell’azienda sanitaria locale di residenza del paziente.

Riteniamo che sia oggi giunto il momento, finalmente, di chiarire che non siamo più dispost* a tollerare il ricatto che ci obbliga a subire la patologizzazione con tutti i suoi corollari protocollari e strutturali per avere riconosciuto il nostro diritto alla salute.

 


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